Appunti inediti per un romanzo. Uno scritto inedito di Angelo Morino

Quella che comincia è una storia o, meglio, un romanzo

di Angelo Morino

Queste pagine inedite di Angelo Morino sono state salvate dal suo computer all’indomani della sua improvvisa scomparsa da Vittoria Martinetto, che ne è depositaria in virtù del loro lungo sodalizio e che ringraziamo per la gentile concessione.

 

 

Ventidue agosto

UN’ORA SOLA SENZA DI TE

Un dattiloscritto ritrovato: questo è il punto di avvio. Un oggetto sopravvissuto a diversi traslochi e al passare di tanti anni. Rimasto in salvo più per caso che per l’intervento di una volontà. In tutto formato da tre fascicoli, anche se esito nell’usare questa parola: fascicoli. In realtà, la prima a venirmi in mente è stata quinterni. Un dattiloscritto formato da tre quinterni. Di quelli che si andavano a comprare in cartoleria o dal tabaccaio. Erano i tempi delle scuole medie, poi del ginnasio e del liceo, fra i dieci e i diciotto anni. Vivevo in una piccola città – poco più di un paese – a una cinquantina di chilometri da Torino. Mai presentarsi a un compito in classe senza un quinterno di fogli protocollo. Poteva essere un tema libero da svolgere, una versione dal latino o dal greco in italiano, esercizi di grammatica francese. In questi casi i fogli erano a righe, con margine o senza, a scelta. Per i compiti di matematica, algebra o chimica, invece, erano a quadretti e, allora, non si parlava di margini. Un foglio o due servivano per la brutta. Si poteva pasticciarli in tutta libertà. Quanto ai rimanenti, ce n’era d’avanzo per mettere il compito in bella. Ma quinterno non è la parola giusta. Preso in mano e consultato, il dizionario non lascia dubbi. Un quinterno è un gruppo di cinque fogli piegati in due in due e inseriti l’uno dentro l’altro. Mentre, nel caso che qui interessa, i fogli sono prima otto, poi nove e poi ancora otto. Niente che tenga insieme il tutto e ne ostacoli la dispersione: né un elastico, né qualche punto metallico, né un fermaglio. Venticinque fogli che, piegati in due, fanno un totale di cento facciate, numero tondo, risultato più di un caso che di un calcolo. Comunque, al di là di ogni esitazione, fascicolo sembra ancora la parola più adatta da usare. Soprattutto perché sembra racchiudere, meglio di ogni altra fra quelle che potrei scegliere, l’idea di un libro a venire. Da dove verranno questi tre fascicoli? Quale cartoleria o tabaccheria avrebbe potuto, a suo tempo, vendere quantitativi così irregolari? È possibile che in origine fossero tre doppi quinterni, da cui saranno stati sottratti – per destinarli ad altri usi – i fogli mancanti. Sì, è l’ipotesi più credibile.

Comunque sia, ci si atterrà a quanto rimasto. Tre fascicoli di fogli protocollo, a righe, col margine. Il primo di otto fogli, il secondo di nove e il terzo di otto. Un totale di cento facciate, su cui è stato scritto a macchina sino al fondo di quella che, a contarle tutte, si rivela la numero ottantotto. Una Olivetti Lettera 22, portatile, di un colore opaco, sull’azzurro. Era quella la macchina da scrivere usata. Un oggetto compatto, leggero, ridotto all’essenziale. Posato sul ripiano di una piccola scrivania spinta contro il davanzale di una finestra. In quella camera le finestre sono due, gemelle, l’una accanto all’altra, separate solo da una colonnina rettangolare, di mattoni intonacati. Chiunque entri lì dentro, non avrebbe dubbi: è la camera di un giovane. Libri di studio, molti dischi a quarantacinque giri e un grammofono a valigetta, aperto, sistemato in uno scaffale. Sulle copertine dei dischi, nomi e nomi stampati in modo ben visibile: The Rolling Stones, Françoise Hardy, Sonny & Cher, Sandie Shaw, Rita Pavone, The Byrds, Michel Polnareff, Petula Clark, fra gli altri. E insieme ai nomi – e ai volti – i titoli: un anno d’amore, yesterday, il mondo, e se qualcuno si innamorerà di me, love me please love me, bang bang, you’re on my mind, io che non vivo un’ora sola senza te. Ci sono pure altri libri, non pochi, perlopiù romanzi, che con lo studio non c’entrano. Hanno trovato posto sullo stesso scaffale dove c’è il grammofono. Tutti disposti ordinatamente, secondo l’edizione o la collana di appartenenza. Le pareti della camera ho voluto che fossero dipinte in due colori alternati: una arancione, una grigia, una arancione, una grigia. Bianco il soffitto. L’arancione è di una sfumatura pallida, che non aggredisce l’occhio. Tutto come nella fotografia di una rivista di arredamento e riprodotto ingenuamente, senza tenere conto che qui si vive sotto altre latitudini. Alle finestre le tapparelle sono di legno, abbassate a metà. Fuori, una via in discesa, acciottolata e larga, con un muro di cinta oltre il quale si intuisce un giardino privato. È quello di un convento di suore terziarie. Di notte, il silenzio è interrotto dal rumore del filo d’acqua che ricade continuo in una fontana. Solo le gelate invernali, in gennaio e in febbraio, lo mettono ogni tanto a tacere.

Sempre i tre fascicoli, quelli su cui è stato scritto a macchina per ottantotto facciate senza rispettare i margini segnati sui fogli. In corrispondenza alla terzultima riga dell’ottantottesima facciata, a lettere maiuscole, spicca la parola: FINE, piccola e ben centrata. Le rimanenti dodici sono rimaste rigorosamente in bianco. Nessuna annotazione, nessun intervento di nessun tipo. Piccole e ben centrate sono pure le uniche due parole scritte a macchina sulla prima facciata: 22 AGOSTO, giusto nel mezzo. Non è una data messa lì per indicare a quando risale il dattiloscritto. La posizione convenzionale delle due parole mette subito in chiaro che ci si trova davanti a un titolo. È come un avvertimento, ma anche e soprattutto come un segno riassuntivo. Il messaggio è chiaro: racchiusa fra quelle facciate battute a macchina, ci sarà la storia di qualcosa che ha a che vedere con un 22 agosto di un certo anno passato. Oggi è il 7 aprile 2004.

Sotto il titolo c’è una firma, nome e cognome. A parte qualche piccola correzione all’interno, è l’unico intervento di spicco fatto a mano nel totale delle cento facciate. Per la firma è stata usata una biro e l’inchiostro si è un po’ sbiadito. Nel complesso, i caratteri sono grossi, privi di qualsiasi angolosità. Vi si coglie una tendenza al ghirigoro, più manifesta nelle o lasciate aperte, con un tratto che si frena giusto prima di arricciolarsi. Insomma, qualcosa come un tentativo fallito di andare oltre gli esercizi di calligrafia. Tradiscono – nome e cognome lì sopra – la ricerca di una forma con cui mettersi sotto gli occhi degli altri. Che età potevo avere quando ho firmato così, sulla prima facciata del dattiloscritto? A che punto ero arrivato fra i miei dieci e diciotto anni in quella cittadina, a cinquanta chilometri da Torino? Immediata, l’impressione è di averlo definitivamente perso di vista, quel me stesso adolescente responsabile di una firma che oggi non è più la mia. Se ne sarà andato ad abitare altri luoghi, in una geografia dove non ci sono strade che possano ricondurlo qui da me. Di lui, grazie al dattiloscritto che gli è sopravvissuto, solo una cosa riesco ancora a intravedere. Aveva toccato il punto in cui sentiva di voler segnalare un carattere, una storia, una proprietà.

Dopo la prima facciata con titolo e firma, sulla terza – la seconda è in bianco – ci sono cinque versi. Chiusi fra virgolette, in alto a sinistra, come epigrafe. È soprattutto qui che i fascicoli si rivelano organizzati in modo da assomigliare il più possibile a un libro. I versi sono questi: sull’acqua che scorre / è vano scrivere, / ma quanto più vano / a colui che non mi ama / offrire il mio cuore inquieto. Poi, sotto l’ultimo verso, fra parentesi, l’indicazione: antica poesia giapponese. Sia pure volendo estraniarmi rispetto a questo oggetto, due considerazioni sono prioritarie. In primo luogo l’epigrafe, scelta da un adolescente, è insolita. Suggerisce letture avventurate oltre i parametri scolastici. Un po’ di tutto alla rinfusa, del meglio come del peggio, basta che ci si senta trasportati altrove, lontano. Allo stesso tempo, però, non si tratta di una voglia generica di evadere. È piuttosto curiosità per una cosa tanto vasta come può esserlo la letteratura. Di certo, non quella su cui si fanno i compiti in classe e si risponde alle interrogazioni. Sarebbe forse il caso di tornare nella camera con le due finestre gemelle e le pareti arancione e grigio. E, una volta lì, dare un’occhiata ai libri disposti ordinatamente sullo scaffale dove c’è anche il grammofono. Molto probabile trovarvi le cose tipiche di chi si muove da solo, senza una guida, buttandosi alla cieca. Magari anche un’antologia della letteratura giapponese, rilegata in finta pelle, con fregi dorati sul dorso. In secondo luogo, si direbbe che l’epigrafe, riassumendo una situazione di amore non corrisposto, voglia introdurre per l’appunto a una storia di questo genere.

Girato ulteriormente il foglio, alla sesta facciata – anche la quinta è rimasta in bianco – non ci sono più dubbi: quella che comincia è una storia o, meglio, un romanzo. Prima c’erano stati soprattutto il titolo e l’epigrafe a suggerirlo. Ma adesso c’è persino un numero romano, in alto a sinistra, messo per indicare che si è davanti a un primo capitolo. In tutto ce ne sono sette, ognuno diviso in blocchi più o meno lunghi, separati fra loro da una riga in bianco. Quanto alla frase iniziale, spazza via ogni incertezza, ammesso che ce ne fossero ancora. Vengono subito portati in scena due personaggi, quegli stessi che si riveleranno i protagonisti della vicenda raccontata. La frase recita: Marco aveva visto Anna da sempre, era quasi cresciuta sotto i suoi occhi.

Quel sempre da cui Marco aveva visto Anna non ha nulla a che vedere con l’eternità. Continuando a leggere, si apprende in fretta che lui va per i diciotto anni e che lei ne ha quattordici. Subito dopo si viene pure a sapere che le loro famiglie intrattengono rapporti di amicizia e abitano da qualche tempo nello stesso edificio. Non viene mai indicato, invece, che tutto accade in una piccola città di provincia, anche se lo si deduce dalle annotazioni descrittive. Inoltre, nessun nome che la designi, nessuna panoramica che la ritragga nel suo complesso. Non mancano, però, cenni sparsi qua e là: sta al centro di una valle, è ricca di antichità romane, un fiume l’attraversa. Tutt’intorno, molti paesini di montagna, campi, boschi, che conservano ancora ricordi della guerra partigiana. C’è pure una città più grande, forse un capoluogo, ma è solo una lontana presenza. Questi posti vengono indicati con lettere maiuscole dell’alfabeto: ci sono X, Y e J. L’azione si svolge nel giro di pochi mesi. All’inizio è il mese di agosto. Il giorno 22, viene da dedurre solo per via del titolo, unico punto in cui la data compare. Alla fine l’inverno successivo non si è ancora concluso. Ma la stagione congeniale, quella che dà il tono, è l’autunno. Passeggiate solitarie, foglie morte, inquietudini a fior di pelle. Nessun nome di luogo e, coerentemente, nessuna indicazione – esplicita o implicita – in merito all’anno in cui inserire la data del titolo. Comunque, non è una vicenda riferita con distacco, molto tempo dopo che si è svolta. Un certo tentativo di staccarsene, di oggettivarla, questo c’è. Non si indaga troppo sulla psicologia di Marco e Anna. Si preferisce registrarne le azioni e i discorsi. Ma tutto rinvia a una stretta vicinanza fra il tempo di chi scrive e quello degli eventi descritti.

Ecco cosa accade nei primi due capitoli. Marco avrà anche visto Anna da sempre, ma un bel giorno la vede con occhi nuovi. Lei è appena tornata dalle vacanze al mare. Indossa un vestito stretto e colorato e porta i capelli – biondi, lunghi – raccolti sulla nuca. È molto abbronzata. Insomma, è ancora vicina all’infanzia, ma lascia già intuire qualcos’altro. L’indomani, in compagnia delle rispettive madri, Marco e Anna vanno a passare la giornata in un paesino arroccato su un versante della valle. Sono in visita a casa della nonna materna di lei, che vive lì da sempre. In precedenza i due non si frequentavano granché, lei troppo bambina, lui ormai proiettato verso un’altra età, entrambi senza un punto di contatto. Ma questa volta è un po’ come se si scoprissero a vicenda. Dopo mangiato, si appartano su una piattaforma di cemento sopravvissuta allo smantellamento di una funivia. Si mettono a prendere il sole, vestiti, e si fanno qualche confidenza. Si capisce in fretta che Marco ha delle mire su Anna e che lei non è così innocente come si poteva credere. Comunque l’avvicinamento si ferma alle confidenze. È stata una splendida giornata e tutto lascia prevedere che – siamo alla fine del primo capitolo – a questa faranno seguito giornate altrettanto splendide. E così, nel capitolo successivo, Marco e Anna continuano ad avvicinarsi. Una sera, rimasti da soli in casa di lui, danno inizio a baci e a esplorazioni disinvolte. Poi vengono ritratti durante un pomeriggio sul greto di un fiume, in campagna, mentre giocano e fanno il bagno. Poi ancora stanno tornando da X, in auto, loro due sul sedile posteriore, davanti il padre che guida e la madre di lei. In mezzo, che li divide, c’è un disco a trentatré giri, che Marco ha appena comprato. Non dicono niente, si limitano a scambiarsi un’occhiata. Una mano di lui e una di lei scivolano sotto la copertina del disco e, così protette dagli sguardi dei genitori di Anna, si stringono a lungo, come torturandosi. Fuori, intanto, pioveva e – attraverso i finestrini, ai lati e dietro – non si vedeva niente.

Leggendo questi due primi capitoli, colpiscono certe frasi, certe immagini, su cui viene da bloccarsi, col rischio di non avanzare oltre. Meglio offrirne un campionario e liquidare subito la questione. I capelli di Anna sono sporchi di spensieratezza e di negligenza. Le notti diventano languide, complici, struggenti. Il sole scintilla sull’oro bruno delle penne di una gallina. Il pomeriggio si rigira sonnolento in una camera e sbadiglia attraverso la finestra. E avanti così, basta sfogliare i fogli successivi: le cose non cambiano. L’umidità si annoda ai piedi trascinati sul pavimento. La paura è grigia e ossessionante. Una striscia di sole ferisce la bocca, penetra fra le labbra socchiuse e batte sui denti lisci. Eccetera eccetera. Quanto ai dialoghi, i personaggi si parlano usando verbi improbabili come rammentare, mutare e attendere. C’è chi sentenzia che il vero dolore non ammette lacrime. Altrove qualcun altro dice che, se proprio si deve fare i porci, meglio farlo con un po’ di dignità, senza falsi pudori. Più in là si insiste che la noia è l’inesistenza di un legame con quello che sta intorno. Una cosa è certa. Non era un adolescente di genio quello che ha scritto sui tre fascicoli di fogli protocollo. Quello perso di vista, finito in una geografia senza strade che possano ricondurlo fino a me. Difficile trovargli una coincidenza che mi permetta di scrivere io. Gli si può riconoscere solo il merito di una certa caparbia: è comunque riuscito a mettere insieme una struttura. Si è applicato, una frase dopo l’altra, con costanza, da un inizio sino a una fine. Un certo sforzo, questo sì, bisogna riconoscerglielo. Doveva crederci nella storia che ha voluto raccontare, darla a leggere. Sul dattiloscritto formato dai tre fascicoli ci sono pochissime correzioni, pochissime cancellature. Ma non si creda che il tutto è stato redatto in questo modo, di getto, senza fatica. Non è un caso se il pensiero è andato ai quinterni che si compravano in cartoleria o in tabaccheria, per la brutta e la bella dei compiti in classe. Il dattiloscritto ritrovato è per l’appunto una bella copia, una stesura definitiva, consegnata come al termine di un tema in classe. La brutta non è sopravvissuta. Si può immaginare un quaderno a righe, con la copertina plastificata, a colori accesi, tante piccole forme geometriche. Correzioni e cancellature saranno state tutte lì dentro, a testimonianza di un vero e proprio lavoro, portato a termine riga per riga, pagina per pagina. È quest’altro oggetto, precedente il dattiloscritto, che più chiaramente renderebbe giustizia della caparbia, dell’applicazione, della costanza. Ma quanto al resto, certo, un unico verdetto possibile: pollice verso.

Non si tratta solo di come vengono dette le cose: tutti quegli aggettivi inopportuni, le frasi prese malamente in prestito, la passione per gli effettacci stilistici. È anche un problema di poca verosimiglianza. Già nei primi due capitoli, ci sono parecchie situazioni che generano perplessità. Innanzitutto Marco e Anna godono di eccessiva libertà nello stare insieme. Per quanto l’anno in cui inserire il 22 agosto non venga segnalato, elementi interni al testo permettono comunque un’approssimativa datazione. Sono gli accenni alla guerra partigiana, cui – viene detto – ha partecipato lo stesso padre di Marco, da giovane, non ancora sposato. Quindi, se all’inizio del romanzo Marco va per i diciotto anni, sarà nato dopo la fine della seconda guerra mondiale. Molto probabilmente fra gli ultimi anni quaranta e i primi cinquanta del novecento. Il che indica nella metà degli anni sessanta l’inizio della vicenda raccontata, forse un po’ prima, forse un po’ dopo. Ebbene, sia pure in una zona dell’Italia del nord, a quell’epoca un ragazzo sui diciotto anni e una ragazza quattordicenne non venivano lasciati soli con molta facilità. Neppure di nascosto Anna avrebbe potuto assentarsi tutto un pomeriggio per andare a passarlo sul greto del fiume a fare il bagno con un ragazzo. E se mai avesse pensato di poter chiedere il permesso, i genitori non gliel’avrebbero dato. Non è credibile neppure la scena in cui – di sera, mentre in televisione trasmettono una tragedia greca – Marco e Anna si baciano e cominciano a spogliarsi. Nella realtà non avrebbero potuto rimanere indisturbati, mentre i genitori dell’uno e dell’altra se ne stavano a chiacchierare in un appartamento vicino. Andando oltre i primi due capitoli, inverosimiglianze di questo genere non fanno che aumentare. Ma poi, più generalmente, alla metà degli anni sessanta, quella di Marco e soprattutto di Anna non è un’età in cui ragazzi e ragazze si frequentassero con disinvoltura. I maschi da una parte, le femmine dall’altra, tutti memori della divisione in base alla quale erano stati educati. C’era come la sensazione di esporsi al ridicolo quando si passava da una parte all’altra. Qualcosa di simile a una perdita, diverso per un ragazzo o per una ragazza, ma in entrambi i casi non facile da ignorare. Niente di tutto questo fra Marco e Anna, che si vivono una libertà eccessiva. All’inizio come alla fine, sono sempre l’uno di fronte all’altra, senza linee di separazione che li tengano lontani. Nessun imbarazzo rispetto al proprio corpo, nessuna differenza con cui confrontarsi. Solo un seno piccolo e duro, ancora acerbo, come marmo sotto la luna. Solo l’evidenza di un desiderio su cui – per nasconderlo in pubblico – Marco si abbassa in fretta la maglietta. Ma sì, qualcosa che non c’è. E qualcos’altro che viene sottratto alla vista, mascherato. L’obiettivo sarà anche stato quello di scrivere un romanzo, fare letteratura. Tutto in questo dattiloscritto autorizza a pensarlo. Certo è che, quanto al romanzo, manca la verosimiglianza necessaria a qualsiasi narrazione dall’impianto realista. Quanto alla letteratura, gli effetti di stile – lo si è visto – non potrebbero essere peggiori. Resta il fatto che una storia i tre fascicoli la raccontano, e non delle meno interessanti. Basta che la si guardi, per l’appunto, dalla parte di quello che vi è di sottratto e di mascherato.

Non c’è mai stata nessuna Anna fuori dal dattiloscritto intitolato 22 agosto. Nella storia che vi è raccontata non c’è difficoltà a trovare coincidenza con un pezzo del mio passato. Che non è solo stata scritta nella camera con le pareti color arancione e grigio. Lì dentro, almeno in parte, è stata anche vissuta. Ma il nome di Anna è una maschera, preferito ad altri dello stesso genere non saprei dire in base a quale criterio. Nella realtà il posto occupato da Anna appartiene a Carlo. Questo il nome, lui tredici anni e mezzo, io diciassette.

 

CITTÀ

Qui la città non avrà un nome. Settemila abitanti, molte case con tetti di ardesia, portici sempre in ombra su un lato di una via nella parte vecchia. Intorno, una campagna chiusa fra le montagne, comunque vasta, d’inverno ricoperta dalla neve, fra il bianco e l’azzurro, e d’estate tutta erba lucida, dispiegata sotto il sole. La città non avrà un nome qui, ma neppure altrove, negli spazi che contano, se non sui documenti, lì dove si riassumono dati che finiscono per appartenere sempre di meno, a mano a mano che gli anni trascorrono. E che corrispondono sempre di meno a luoghi, eventi, precisazioni lì racchiuse in una cifra di lettere. Quanto agli spazi che contano e che possono essere il risvolto della copertina di un libro o una nota biografica destinata a essere diffusa, no, quel nome c’è volontà che non compaia. Così come c’è volontà che non compaia qui, quasi a voler significare una perdita definitiva, ma anche e soprattutto la permanenza di un rancore, conseguente a un disagio vissuto a lungo nel tempo trascorso fra i confini di quella città e dei suoi dintorni. Ma, adesso, qui, non ci sarà spazio per disagi che hanno segnato un’adolescenza. Adesso, qui, ci sarà spazio solo per gli anni di un’infanzia e del suo ignaro protrarsi in successive frange di pieno sole.

La città aveva monumenti antichi. C’erano un arco di trionfo, un acquedotto, un’arena di pietre romane, rimaste chiare, come indenni alla luce dei secoli caduta lì sopra. E, posteriori, c’erano pure un castello, una cattedrale col suo campanile alto, pezzi di borgo, le cui superfici apparivano invece più buie, bagnate da un’umidità penetrata a fondo. Fra questi residui antichi, lì dove più si addensano, nella parte vecchia della città, si muovono i personaggi che per molto tempo sono sopravvissuti come addormentati o, forse meglio, come sepolti in un sonno. I personaggi si sono mossi intorno a un bambino, poi adolescente, dagli occhi chiari, azzurri, grossi come noci, e dai capelli ancora biondi, ma già tendenti al castano, tagliati a frangia sulla fronte alta. È un bambino che fa una rapida comparsa solo a questo punto, senza che ulteriori descrizioni lo precisino, perché nel presente, lontano dall’infanzia, è morto, lasciando il posto solo a una memoria sonnacchiosa, che, se adesso si risveglia, non mira ad allacciare connessioni fra prima e poi. Si preferisce che gli altri, i personaggi a suo tempo intorno a lui, facciano ritorno indipendenti, così come i luoghi, le cose, le sensazioni. Questi personaggi sono soltanto donne e ragazzi o altri bambini, perché, in questa città, gli uomini circolano unicamente sullo sfondo, senza avere parte negli eventi determinanti, nelle leggende che si ordiscono durante il trascorrere inconsapevole dei giorni. Gli uomini sono creature mai capaci di gesti che affascinino, che lascino traccia nel ricordo, che permettano di intuire che c’è un mondo più vasto, in attesa. Quanto ai ragazzi e agli altri bambini, tutti estranei alle rigidezze che intervengono su corpo e pensiero adulti, daranno forma a un desiderio destinato a fissarsi fra contorni definitivi. Si possono anticipare schiene sciabolate dal sole, capelli biondi o bruni di una compattezza che ha qualcosa del vegetale, cavità accoglienti dei corpi che si fanno aprire senza i ritegni del pudore. E, così, lo spazio antico, fra pietre asciutte e intonachi scrostati, si organizza in preludio a una mappa di cantine e solai, fra le cui remote scale i sensi hanno avuto modo di fissarsi sull’oggetto da poi preferire.

Sempre, gli uomini adulti sono assenti nella città, quasi non avessero diritto di circolarvi. Dove passano il loro tempo, logorandolo in un modo che si direbbe vano? A quali incombenze si dedicano, ignorando gli incanti del vivere? Fra quali pareti segrete si intrattengono, mentre fuori le ore si susseguono luminose? Solo la sera fanno ritorno nelle vie, nei cortili e, infine, nelle case e, allora, rattristandosi, i colori del mondo sbiadiscono. Tutto finisce per uniformarsi in un bianco e nero privo di netti contrasti, in un grigiore diffuso e stanco. C’è un pasto che li aspetta per essere consumato senza troppe parole, con un appetito guardingo. C’è un letto che li accoglie fino all’indomani mattina, quando scompariranno per fare ritorno a luoghi in povertà di belle tinte. C’è una donna che, piegandosi a loro, diviene inaccessibile per tutta la notte, lei che durante l’intera giornata non aveva mostrato limiti alla sua disponibilità e alle sue attenzioni. Una tristezza, braccata fra domanda e risposta di un enigma frusto, pesa nel buio sopra i tetti.

Una strada della parte vecchia si chiamava Via dei Mercanti, un tempo. E, forse più di altre, questa via antica si apriva ai lati in passaggi che, dopo un breve tratto, spesso un andito coperto dal soffitto a volta, si espandeva in cortili interni. Erano spiazzi difformi, in genere di nuda terra con esigui acciottolati.

Al centro di una valle, la città è prossima alla frontiera, solo una ventina di chilometri se si sale verso un passo che, però, le nevi dell’inverno bloccano. Lungo un’altra strada, seguendo la linea ferroviaria fino a un tunnel che penetra nella montagna, la frontiera è più lontana, rimanendo comunque distante solo un’ora di treno. Di questa vicinanza importano le folle straniere che, d’estate, sopraggiungono nelle vie trasformate in mercati dalle esposizioni davanti alle vetrine dei negozi. Intanto, gli echi di un’altra lingua entrano nell’orecchio, allacciando una specie di prosieguo rispetto a quella che si parla nella città. Ma, lo hanno insegnato a scuola e ancora prima della scuola, quella degli stranieri è una lingua, mentre quella che si parla in città è un dialetto, una forma bastarda, un complesso di suoni indegni, che non si assoggettano ai modi decenti dello scrivere. Così, durante le estati, c’è questo contatto con voci che vengono da altrove, che a poco a poco rivelano il significato di frasi sempre più articolate, che rinviano a una storia familiare raccontata a brani sparsi e intessuta intorno a una donna sconosciuta.