Fernando Aramburu – Dopo le fiamme

recensione di Chiara D’Ippolito

Fernando Aramburu
DOPO LE FIAMME
ed. orig. 2006, trad. dallo spagnolo di Elisa Tramontin,
pp. 256, € 17,
Guanda, Milano 2019

Nei dieci racconti di Dopo le fiamme un’ombra densa di tristezza grava su ogni personaggio, non importa che sia carnefice o vittima, che sia la madre di un terrorista in carcere per un attentato in cui sono morti dei bambini, oppure la giovane vedova di un poliziotto che tenta di resistere all’ostilità dei propri vicini che vogliono cacciarla dal paese. L’“amarezza” contenuta nel titolo della prima storia riguarda tutti, infetta le vite di chiunque, e persino il paesaggio (“Il mare aveva un color cenere e bianco, in un rabbioso disordine di acque. Il cielo era un impasto di nuvole sporche”, si legge nelle prime pagine). Perché ciò che interessa a Fernando Aramburu, in questa raccolta del 2006 ripubblicata in Italia da Guanda dopo il successo di Patria, non è dirci chi siano i buoni e chi i cattivi, e nemmeno le analisi storiche e politiche o la cronaca dei fatti, ma esclusivamente raccontare gli effetti del terrorismo sulle persone.

Mostrare, attraverso storie che sono sempre intime e domestiche, le vittime collaterali della violenza, quelle che hanno subìto loro malgrado i danni dell’odio e la cui esistenza sembra sospesa e senza futuro (“Mia cognata accennò all’argomento del cominciare una nuova vita. Mi affrettai a darle ragione perché stesse zitta”, dice il protagonista dei Pesci dell’amarezza). Far vedere tutto ciò che fino a poco tempo fa, nei Paesi baschi, veniva nominato con difficoltà: il dolore, la rabbia, l’umiliazione (“Le ardevano in mezzo al petto braci di umiliazione. E tra sé si diceva che lei non era disposta a chiudersi in casa con il proprio dolore. Tutti dovevano vederlo: il suo dolore imperterrito, il suo dolore alto come un lampione in mezzo alla strada”, pensa Toñi in Madri), la paura, la solitudine, la vergogna (in Dopo le fiamme, una figlia non vuole che il padre racconti di essere stato ferito casualmente durante una manifestazione), ma anche la viltà e l’indifferenza (in La trapunta bruciata, una coppia si chiede come mai il vicino, minacciato dai terroristi con delle bottiglie incendiarie, non abbia ancora cambiato casa e continui a metterli in pericolo). Come se, in questo libro scritto  con una lingua asciutta ma che non tralascia di descrivere alcuna emozione, il pensiero di Aramburu coincidesse con quello della madre di La cosa più bella erano gli uccelli, che al figlio che deve ancora nascere dice: “É un crimine dimenticare certe cose”.