Arianna Dagnino – Il Quintetto d’Istanbul

Il 18 ottobre Arianna Dagnino sarà a Torino per la programmazione del Salone Off. L’autrice, dalle ore 12.00 alle ore 14.00, presenterà il suo libro Il quintetto d’Istanbul nell’aula 1 del complesso Aldo Moro dell’Università di Torino.

recensione di Carmen Concilio

Arianna Dagnino
Il Quintetto d’Istanbul
Confluenze e intrecci tra vita e scrittura nella transculturalità
pp. 177, € 16
Ensemble, Roma, 2021

Il quintetto d'Istanbul. Confluenze e intrecci tra vita e scrittura nella transculturalità - Arianna Dagnino - copertinaLa location è indubbiamente intrigante: Istanbul. Città dove noi occidentali proiettiamo i nostri sogni orientalisti e le nostre fantasie di un salotto multiculturale, sospeso come un ponte tra occidente e oriente. È lì che si dispiegano cinque interviste con autori e autrici transnazionali e poliglotti, apolidi, cosmopoliti e nomadi, nel tentativo di accordare cinque voci in un inno corale alla transnazionalità. Le interviste sono reali, nei contenuti, ma finzionali nell’ambientazione e questo testimonia di quanto la città sul Bosforo venga idealizzata. Questo libro-saggio di Arianna Dagnino, nata in Italia, a Genova, residente a Vancouver, ma nomade per “ansia d’altrove”, è un manifesto, una sorta di proclama per una letteratura la cui sola patria sia la trans-scrittura, la scrittura e le sue plurime traduzioni. Impermanenza, sradicamento, spatriato, neonomade, mobilità permanente, ricerca di altrove, apertura mentale, sono solo alcune delle locuzioni chiave, delle stazioni di posta, lungo la via ferrata che sfreccia verso una definizione/difesa della transculturalità, ultimo paradigma dopo quello di “multiculturalismo”, “ibridismo” e “vita liquida”. Questa di Arianna Dagnino, ben nutrita di note, come di dovere in un saggio accademico, ricca di dotte citazioni, nomi di autori amati, trame di libri letti, ricordati a memoria o citati alla fonte, interviste passate e presenti con scrittori, scrittrici e intellettuali di vari paesi e continenti, è anche una biografia letteraria dell’autrice; è il suo percorso di formazione di studentessa, letterata, docente e giornalista in Italia e all’estero. La viaggiatrice che ci parla è anche la biblioteca che porta con sé, pur viaggiando con bagaglio e cuor leggero. Come ad un appuntamento galante, i due passeggeri, intervistatrice e intervistato, s’incontrano e si riconoscono per un segno distintivo: stesso libro per la medesima meta, edizioni e lingue diverse. Istanbul di Orhan Pamuk. Lo scrittore-pellegrino è Ilija Trojanow. Il bagaglio dell’intervistato è un inglese neutro, velato appena da un accento, una certa disinvoltura. D’altro canto, scrive Dagnino, “gli émigré, gli sradicati perenni, i nomadi di ritorno si fiutano, si riconoscono, sanno di parlare un linguaggio comune” fatto di “biografie dalla qualità transitoria, mosse, scosse dal caso e dal destino, in movimento perpetuo”. Nel 1971 a sei anni, Trojanov si ritrovò catapultato dalla Bulgaria all’Italia e, subito dopo, dalla Germania al Kenya. Uomo camaleonte, metamorfico, che ora vive a proprio agio a Vienna, pronto però a trasferirsi a Sofia per un nuovo progetto editoriale; suo il romanzo biografico Il collezionista di mondi (2007), in cui ricostruisce la vita di Sir Richard Francis Burton, a sua volta viaggiatore, orientalista, esploratore, traduttore e poliglotta. Arianna, per contro, da piccola era asmatica e, come Stevenson, spesso costretta all’immobilità, per cui per contrappunto sognava un “neonomadismo fisico ed esistenziale”; “partire per il gusto del viaggio in quanto tale”, scrive, in corsivo, inframezzando brandelli autobiografici all’intervista. Diventare un’inviata, pagata per viaggiare, scrivere e andare incontro alla Storia, per emulare le interviste illustri di Oriana Fallaci. 

Lo scrittore transculturale, non si limita a viaggiare, traversando lingue e culture, sostando di casa in casa, ritornando là dove la nostalgia è più audace, ma scrive di “personaggi aperti al mondo”, come hanno fatto Salman Rushdie e Jozé Lezama Lima, il Borges cubano. Le interviste di Dagnino sono anche lezioni erudite su una letteratura transnazionale che caratterizza un nuovo avanguardismo, tra fine Novecento e inizio del Nuovo millennio. Come tutte le definizioni accademiche anche quella di transculturalità può sembrare una limitazione, un tentativo di imbrigliare uno “stare nel mondo”, e non solo “al mondo”, aperto e mutevole, adattabile e fluido. Con Brian Castro, Dagnino sorseggia un tè nero, e discute di appartenenza. Castro ha genitori portoghesi ma è cresciuto tra Shangai e Hong Kong, prima di trasferirsi in Australia: “scrive in inglese ma sente in cantonese”. Per emergere in un’isola di monoculturalismo anglosassone, Castro doveva trovare casa nella propria scrittura. Forse, non è un caso che molti figli di diplomatici, cresciuti in più paesi e più lingue, sradicati e nomadi, emergono come scrittori: forse proprio grazie ad una maggiore ampiezza di vedute, alla loro mondanità, alla stereofonia di lingue in cui il sé si stempera inevitabilmente. A questa stessa stirpe Dagnino associa Alberto Manguel, che incontra su un caicco nel Bosforo, e Inez Baranay, che invece le dà appuntamento in un bagno turco. È difficile imbrigliare le identità e gli accenti molteplici di chi – per necessità o per destino – ha varcato confini, è a proprio agio in più continenti e intesse storie di identità altrettanto complesse, poliedriche e prismatiche, per le quali un solo hyphen (il trattino che congiunge due identità nelle cosiddette hyphenated identities) non è sufficiente. Colpisce, però, che Arianna Dagnino, pur immersa nella cultura canadese, non riconosca proprio al Canada quella qualità di multiculturalismo transnazionale, che Istanbul, onestamente, sembra avere perso negli ultimi decenni, e che invece sembra caratterizzare il Canada, più di altri paesi, almeno se guardato dall’Europa. Inoltre, Dagnino si muove in un contesto transnazionale e dialoga con scrittori poliglotti ma pur sempre nell’anglosfera, vale a dire in un luogo immaginario in cui l’inglese è lingua franca. Allora, viene da domandarsi se più importante del trascendere un luogo – la trans-cultura – non sia invece una letteratura poliglotta/polifonica lo statuto “new normal”, nuova corrente (o, élite?) cultuale, oppure intelligenza collettiva del nuovo millennio?

Carmen Concilio
carmen.concilio@unito.it