Giulia Caminito – Un giorno verrà

recensione di Matteo Moca

Giulia Caminito
UN GIORNO VERRÀ
pp. 240, € 16,
Bompiani, Milano, 2019

Nel suo primo romanzo La grande A (Giunti, 2016), Giulia Caminito si era già contraddistinta per una scrittura propria e originale, narrando una storia ispirata liberamente alla biografia della sua famiglia. In quel romanzo si segue l’avventura di Giada, in bilico tra l’Italia e le colonie italiane in terra d’Africa (la grande A del titolo), ma la storia minuta e particolare si faceva immediatamente più grande e collettiva, costituendosi così come un racconto vero e pregnante di una parte di storia di coloniale squallore spesso dimenticata. Con questo secondo romanzo Un giorno verrà, Caminito, che si conferma tra le giovani scrittrici italiane più interessanti e meritevoli di attenzione, costruisce un secondo tassello di questa storia e conferma la cifra stilistica della sua scrittura: infatti, pur non essendoci legami diretti tra i due libri, anche in questo caso l’attenzione della scrittrice nasce da una vicenda familiare, ma soprattutto ancora una volta l’attenzione per una piccola storia, indagata con dovizia e attraverso un profondo studio, si fa immediatamente più grande, come anche il compito della scrittrice, che qui sceglie ancora di indagare storie del passato per gettare una luce, spesso sinistra, altre volte solo malinconica, sul presente.

Sono due i protagonisti principali di questa storia ambientata in un piccolo paese contadino delle Marche all’alba del Novecento, due fratelli, figli del fornaio di paese, Luigi Ceresa, un uomo debole e incapace di provare alcun sentimento, a suo agio solo nel lavoro e che ha «una famiglia disgraziata, [dove]si diceva che i corvi mangiassero a tavola con loro». I protagonisti sono Nicola, chiamato «il ragazzo di mollica perché era figlio del fornaio e perché era debole», nato per sua sfortuna in una terra dove non erano gli uomini a comandare ma la terra, «perché la terra restava mentre gli uomini andavano via e a nulla serviva uno come lui, nato tra i campi con le braccia morbide, tenere e pallide» e Lupo, il fratello maggiore, ragazzo invece forte, ribelle e vigoroso, anarchico e convinto di dover combattere per qualcosa che possa garantire un avvenire migliore per tutti anche se «a lui, che era nato come gli altri per il lavoro, non era dato conoscere come girasse la Storia, come vorticassero i popoli e le genti». Nonostante questo nascerà in lui un moto di ribellione verso le ingiustizie che si affastellano lungo la via dell’esistenza dell’uomo, a partire da coloro che «possiedono i campi e le case», gente che «si compra pure l’anima tua e se la rivende» come gli dice un amico. Tra questi due ragazzi uniti e diversi e che si proteggono a vicenda, si inserisce l’altro personaggio fondamentale, Zari, che dal Sudan venne rapita ancora bambina e che nelle Marche si convertirà al cristianesimo e diverrà la badessa del convento di clausura di Serra nonché un punto di riferimento per tutta la popolazione.

Il romanzo di Caminito, condensato in una prosa immaginifica e veloce, tratteggia con estrema sensibilità e con grande accuratezza il momento in cui la vita di questi poveri uomini, ai margini del mondo, si scontra con la Storia e il suo «scandalo», per utilizzare le parole di Elsa Morante, certamente cara all’autrice. Improvvisamente infatti irrompe nella tranquillità del borgo marchigiano di Serra de’ Conti il vento della Storia, i vagiti del socialismo e dell’anarchismo, i risvolti della Settimana Rossa, le violenze della Grande guerra e l’epidemia di Spagnola. Eppure questi ragazzi che devono diventare uomini resistono, si scontrano, uniti però dalla consapevolezza che uno strumento che li possa salvare esiste, si chiama cultura, conoscenza e capiscono sin da bambini che è questo il dispositivo in grado di garantire una loro emancipazione: Lupo infatti paga la scuola a Nicola affinché lui possa raccontargli ciò che impara e donargli gli strumenti per leggere il mondo perché «ogni cosa imparata era uno schiaffo in faccia a Luigi, ogni frase scritta gli apriva un’altra frase e poi un’altra ancora, e il loro borgo e i loro campi, il loro dialetto, diventavano solo sputi nel mondo».

 

Matteo Moca è dottorando in letteratura italiana all’Université Paris Nanterre e all’Università di Bologna