Cesare Pavese – Il Taccuino segreto

Un rovello ossessivo e sotterraneo

di Marco Bresciani

Cesare Pavese
Il Taccuino segreto
a cura di Francesca Belviso,
pp. 236, € 25,
Aragno, Torino 2020

La “Repubblica dei partiti” cominciava a scricchiolare e la cultura antifascista manifestava i primi, acuti sintomi di crisi, quando sui quotidiani dell’estate del 1990 tenne banco una virulenta polemica intorno a un “taccuino segreto”. L’8 agosto, “La Stampa” pubblicò gli appunti di un block notes ritrovato tra le carte di Cesare Pavese da Italo Calvino e fotocopiato da Lorenzo Mondo. Per quanto scarni e sparsi, quegli appunti risalenti al 1942-1943 facevano a pezzi l’immagine progressista e antifascista dello scrittore e poeta piemontese, a lungo coltivata soprattutto dagli ambienti intorno alla casa editrice Einaudi. Da Alessandro Galante Garrone a Giancarlo Pajetta, da Natalia Ginzburg a Franco Ferrarotti, intervennero per attaccare o difendere l’amico che si era dato la morte quarant’anni prima. Ma in quale rapporto quegli appunti si ponevano con la biografia intellettuale di Pavese e, soprattutto, con il suo diario Il mestiere di vivere? In quale misura e in quali termini imponevano di ridiscutere la sua appartenenza al campo antifascista? Se ne poteva addirittura concludere che avesse disertato la battaglia che amici e compagni come Leone Ginzburg avevano condotto fino in fondo? La pubblicazione integrale del Taccuino segreto spinge ora a riesaminare queste domande. Il testo, curato e commentato da Francesca Belviso, si accompagna alla riproduzione delle fotocopie (in mancanza dell’originale, mai ritrovato) e alla rassegna (sia pur incompleta) degli interventi della polemica del 1990. L’introduzione contribuisce a formulare una serie di problemi che questo testo continua a proporre non solo ai critici letterari, ma anche agli storici della cultura tra le due guerre. In particolare, sviluppando un suo precedente lavoro (Amor fati. Pavese all’ombra di Nietzsche, Aragno, Torino 2015), la curatrice ha il merito di restituire Pavese a una cultura profondamente impregnata di nietzscheanesimo (mediato dal dannunzianesimo). Tuttavia, scavi ulteriori intorno al rapporto con il critico letterario Giaime Pintor, suo amico e collaboratore presso Einaudi nei primi anni quaranta, permetterebbero di approfondire non solo il suo interesse per la cultura del radicalismo di destra (soprattutto tedesca), ma anche la sua insofferenza per il “moralismo” antifascista.

Tutt’oggi il Taccuino offre una lettura per molti versi sconvolgente. Frammento dopo frammento si susseguono l’esaltazione della virtù e dell’atrocità guerriera, la convinzione nel destino storico dei popoli, l’interpretazione della guerra nazifascista come una rivoluzione, la concezione del socialismo nazionale nella versione fascista repubblicana di Salò. A ragione, Belviso sottolinea i nessi strettissimi tra il Mestiere e il Taccuino. Tuttavia, questo suo richiamo sembra funzionale a neutralizzare il carattere urticante del secondo più che a illuminarne le inquietanti convergenze con il primo. Si può definire Pavese “antifascista estetico” e “apolitico etico”, come viene suggerito? È difficile che queste formule possano sciogliere un nodo complesso come il suo rapporto con la politica; anzi, si potrebbe discutere se il nodo stesso vada sciolto. Nel Mestiere Pavese aveva già scritto: “Tutta la vita è politica” (15 maggio 1939). E nel Taccuino aggiunse: “Ora che nella tragedia hai visto più a fondo, diresti ancora che non capisci la politica?”. È indubbio che Pavese rigettasse la politica come militanza all’interno di un partito. Nondimeno, la politica restò per lui un problema aperto, un rovello a tratti ossessivo ma quasi sempre sotterraneo: il suo “disinteresse per la politica (famoso!)” era esibito più che sentito.

Con tutte le sue energie Pavese tentò di sottrarsi alla politica organizzata e alle sue implicazioni, ma – come aveva già amaramente sperimentato con l’arresto e il confino a Brancaleone Calabro (agosto 1935-marzo 1936) – non sempre era possibile, tanto più in un regime dittatoriale. Secondo quanto affermava nel Mestiere, il suo “disinteresse per la politica” cessava soltanto “in tempi di crisi totalitaria”: egli avrebbe voluto applicare “tirannicamente” un “lib.(eralismo)” che determinasse la “possibilità di ignorare la vita politica” (8 o 9 gennaio 1940). Finché l’Italia di Mussolini e la Germania di Hitler, attraverso la guerra, cercarono di costruire un “nuovo ordine”, il fascismo, ai suoi occhi, sembrò incarnare questa paradossale possibilità. Non a caso, in quella fase, grazie ai suoi studi etnologici e antropologici, iniziò a scoprire la potenza sacra dei miti e dei simboli. Certo, Calvino aveva ragione: “Pavese sapeva bene di maneggiare i materiali più compromessi con la cultura reazionaria del nostro secolo: sapeva che se c’è una cosa con cui non si può scherzare, questo è il fuoco”. Ma i tizzoni raccolti nel Taccuino continuano a bruciare.

marco.bresciani@unifi.it

M. Bresciani insegna storia contemporanea all’Università di Firenze