Daniele Del Giudice – Atlante occidentale | Dall’archivio

Racconti di merci

di Domenico Starnone
dall’Indice di dicembre 1985

 

Daniele Del Giudice
Atlante occidentale
Einaudi 1985

La pagina di Daniele Del Giudice è sempre più densa non di rappresentazioni di oggetti ma di modelli che riproducono oggetti. L’io narrante dello Stadio di Wimbledon (Einaudi 1983) almanaccava sulla carta di Mercatore o si fermava in contemplazione davanti alla riproduzione di un campo da tennis. O anche: osservava un bambino che, nel treno in corsa, faceva correre con la fantasia il suo trenino. Questa riproduzione della riproduzione, presente in una narrativa che si offre come una ricerca sulla scrittura e sulla sua funzione, deborda quasi a ogni pagina di Atlante occidentale (Einaudi), secondo libro di Del Giudice. Qui troviamo aerei che sembrano venire dalla copertina dello Stadio di Wimbledon; paesaggi che rimandano a plastici e fotografie aeree; un trenino elettrico contemplato a poche pagine dalla fine; e una aspirazione calviniana (quanto Calvino rifatto c’è in questo libro!) che suona così: “Chissà… forse alla fine imparerò una geografia diversa, in cui uno, sollevando gli occhi dalla carta che ha in mano, guarda e vede davanti a sé, attorno a sé, un’enorme carta a grandezza naturale, e nonostante questo è capace di mettere il dito in un qualsiasi punto e dire ‘qui’ e dire ‘io’…”.

A conti fatti questo Atlante occidentale non racconta granché, forse ancor meno di quanto raccontava Lo stadio di Wimbledon. Un giovanotto lungo lungo, sorridente e con le sopracciglia circonflesse che si tocca spesso, lavora in un anello di accelerazione che si estende tra Svizzera e Francia. Si chiama Pietro Brahe ed è italiano. Il suo lavoro consiste nel vedere, attraverso sofisticati strumenti, gli oggetti del futuro, nascosti oltre la soglia della materia comunemente percettibile. Nelle pause ama volare. Sta appunto per decollare quando un altro aereo entra in collisione con il suo. Il pilota un po’ pazzo è uno scrittore, Ira Epstein, anche lui lungo lungo e sorridente. Epstein si colloca subito in simmetria con Brahe: ha scritto tutto ciò che c’era da scrivere e ora non gli va più; le storie le vede, ne “prova un sentimento”, ed ecco che esse sono già compiute e di scriverle non ce n’è più bisogno. Ha attraversato il mondo delle forme note ed è arrivato dall’altro lato: “qui tutto è da vedere” dice, “io comincio appena a vedere”.

Il giovane fisico e il vecchio scrittore si incontrano, conversano, si dicono un mucchio di cose intelligenti come i personaggi dei libri non si dicevano da tempo, nemmeno nello Stadio di Wimbledon dove la conversazione procedeva imprecisa, occasionale, a spizzichi e bocconi. Ogni tanto succede qualcosa: Brahe rivela una mezz’anima da pescecane ingannando uno scienziato cinese, pescecane anche lui; o bacia Gilda, la segretaria, forse amante, di Epstein; o va con lei a visitare il castello Voltaire, dove non ci sono più mobili ma solo i loro segni alle pareti che la luce presto farà sbiadire. Poche situazioni ma simbolicamente dense. Alla fine Brahe ed Epstein contemplano fuochi d’artificio che esplodono in cielo in onore dello scrittore, spettacolo antico che sa di futuro, perché evoca sia quello che Brahe attende che si mostri negli strumenti raffinati con cui lavora, sia quel vedere senza scrittura di Epstein. Ed Epstein subito dopo si esibisce in un pezzo “orale” di bravura (per altro troppo scritto anche per uno scrittore), raccontando guizzi e colori appena visti. Dopo di che Brahe va al suo acceleratore sotterraneo e vede davvero i nuovi eventi tanto attesi. Epstein parte invece per andare a ritirare il Nobel. I due si incontrano alla stazione davanti a un modellino di ferrovia e di treno elettrico. Prima di salutarsi si promettono “una storia nuova”.

Riassunto così Atlante occidentale può sembrare un libro fiacco. Invece è un libro ben fatto, ben scritto, che consapevolmente si ferma a un passo da una storia nuova (non di una nuova storia) e fa invece il punto su una storia vecchia che si ripete da almeno ottant’anni. La storia vecchia è quella raccontata dal lord Chandos di Hofmannsthal (Lettera di lord Chandos, 1902) quando registra: “tutto quanto esiste mi appariva come una grande unità”. Ma poi narra anche come questa “grande unità” va a pezzi: “ogni cosa mi si frazionava, e ogni parte ancora in altre parti, e nulla più si lasciava imbrigliare in un concetto. Una per una, le parole fluttuavano intorno a me; diventavano occhi, che mi fissavano e nei quali io a mia volta dovevo appuntare lo sguardo. Sono vortici che a guardarli io sprofondo con un senso di capogiro, che turbinano senza sosta, e oltre i quali si approda nel vuoto”. Del Giudice sembra lavorare sulla “malattia dello spirito” di Lord Chandos che ambiziosamente aggiorna portandola alle soglie della guarigione, con quell’ottimismo che se non ce l’ha un giovane scrittore al secondo libro, non si vede chi dovrebbe avercelo.

Brahe e Epstein, il giovane e il vecchio, sembrano infatti sulla soglia estrema della crisi di Lord Chandos, le cui parole sono diventate occhi vorticanti che ora spiano sul vuoto di un universo polverizzato con protesi di estrema potenza. Il vedere ossessivamente rimbalza di pagina in pagina, per tutto il libro: il vedere del fisico attraverso i suoi strumenti; il vedere dello scrittore che è ormai illuminazione senza scrittura. Ed entrambi i rappresentanti delle “due culture” sembrano presentire che la crisi è agli sgoccioli, che una grande riunificazione all’insegna della continuità o del senza soluzione di continuità veleggia all’orizzonte.
Del Giudice, per dirci queste cose complesse con bravura, riversa in 152 pagine manuali e lessici e cataloghi di scibili sempre aggiornati, dandosi in questo caso non una scrittura falso immediata, ma una scrittura rigorosamente costruita a tavolino. Linguaggi tecnici e appassionate frequentazioni di modellistiche sposano un tono rifatto sulla grande narrativa di riflessione e di atmosfere della prima metà di questo secolo. Un tono flebile con picchi improvvisi che assorbe con naturalezza il frasario descrittivo del grande acceleratore, evocando atmosfere da documentario tecnico-scientifico; o che tratteggia la geometria delle cittadine svizzere sovrapponendo dépliant da agenzia turistica; o che circonda ariosamente comportamenti fortemente schematizzati, ma assorbiti da pagine di prestigio, tra Musil e Mann, dandoci così intellettuali che parlano ancora di massimi sistemi invece che della partita di pallone, e se amano i piloti e i motori ne fanno oggetto di filosofie.

Tutte cose che Del Giudice, proprio mentre le fa, svela attraverso il suo Epstein, esploratore di manuali, innamorato di verbalizzazioni da enciclopedia, ascoltatore attento del frasario da scienziato al lavoro, narratore di parole che designano oggetti e della rete verbale di relazioni e di sentimenti che si distendono dall’una all’altra; consumatore insomma di forme già date e tutte riesplorate e attraversate. Sicché alla fine la vera tensione del libro, drammaticamente e forse consapevolmente irrisolta, sta nel promettere da un lato nuove visualizzazioni e nel doversi collocare invece, come scrittore, più in quanto consumatore di verbalizzazioni e buone divulgazioni tecnico-scientifiche che come osservatore capace di guardare oltre la modellistica già data; capace cioè di stupirci davvero con un nuovo modello visualizzante, tanto da farci esclamare: ecco una cosa che ci stava sotto il naso e che non avevamo mai visto, e che ora impariamo a vedere e a dire.

Del Giudice appare nell’impasse dei suoi personaggi: essi conoscono un bel mucchio di marche e cataloghi di merci. E se ne servono per significare il mondo in modo da aggirare ogni allarmante traccia di obsolescenza. Ma, rivolti sempre al nuovo, si lamentano perché non riescono più a vedere nemmeno il vecchio, e il nuovo riescono a dire soltanto che c’è, a divulgarne l’esistenza, non a rappresentarla. Anche se qualche segnale arriva da una scrittura pulita e precisa dove il passato remoto diventa passato prossimo e presente e futuro nel giro di pochi periodi, marcando il bisogno di una nuova temporalità narrativa.

In copertina, illustrazione di Tullio Pericoli.