Dino Buzzati dalla cronaca nera al racconto

Inesausta curiosità e indaffarato eclettismo

di Chiara D’Ippolito

Dino Buzzati giornalista e Dino Buzzati scrittore: non è possibile dire chi arrivò per primo. O meglio, sappiamo bene che venne prima il giornalista, ma ciò è vero solo in senso cronologico, perché, per Buzzati, i due mestieri furono sempre un tutt’uno, e l’uno influenzò e penetrò l’altro, sotto l’unico segno dell’ossessione di raccontare storie e del desiderio di sondare i grandi nodi del vivere umano. Con un articolo “di nera”, un racconto, un elzeviro, un romanzo, una poesia, o un quadro. Potremmo semplicemente parlare, allora, di un Dino Buzzati narratore, perché, fin dal giorno in cui fece il suo ingresso nella fortezza del “Corriere della Sera” – nel 1928, all’inizio in archivio, poi come reporter e, via via, come estensore, cronista di nera, di bianca, di rosa, di alpinismo, di sport, di guerra, inviato speciale, recensore, critico d’arte, musicale, teatrale, cinematografico, e anche come eccellente titolista – Buzzati divenne parte di quella razza, purtroppo estinta, di “giornalisti letterati”: il suo unico interesse fu quello di raccontare, raccontare storie appunto, in un “continuo oscillare tra un realismo di cronaca ed un realismo favoloso” (Domenico Porzio, introduzione a Dino Buzzati, Le notti difficili, Mondadori, 1979) che, di fatto, non prevedeva separazione tra le sue due vocazioni.

Lo dichiarò lui stesso – “Metto insieme giornalismo e letteratura narrativa perché sono la stessa identica cosa. È nel rapporto fantasia-cronaca che si trova di sicuro il meccanismo base delle cose decenti che ho eventualmente scritto” – nel libro-intervista di Yves Panafieu (Dino Buzzati: un autoritratto, Mondadori, 1973). Lo scrisse Eugenio Montale, osservando che, in Buzzati, rispetto al giornalismo, la narrativa era “lo stesso guanto, ma rovesciato” (in Dino Buzzati, Le notti difficili, Mondadori 1971). E lo dimostrano, oggi, due recenti riedizioni – Dino Buzzati. Bricoleur & cronista visionario, riedizione dell’invito alla lettura di Buzzati che Antonia Arslan scrisse per Mursia nel 1974 e che Edizioni Ares (pp. 192, € 13,50, Milano 2019) ha ripubblicato con una nuova prefazione, e Dino Buzzati. La nera, a cura di Lorenzo Viganò, pp. XL-596, € 30, Mondadori, Milano 2020) – e anche Dino Buzzati, Nella città contemporanea, un ciclo di incontri organizzati lo scorso anno dal Centro Culturale di Milano sotto l’egida di Alessandro Zaccuri (sono ancora disponibili, sul sito del Centro, i video e le letture teatrali che si sono svolte con, tra gli altri, Luca Doninelli, Ferruccio De Bortoli, Giuseppe Frangi, la stessa Antonia Arslan): tre eccezionali opportunità per entrare nell’universo buzzatiano, e capire con quanto talento e totalizzante passione Buzzati si dedicò a quello che in un conosciutissimo elzeviro definì “il meraviglioso mestiere”.

Bricoleur, cronista, visionario: bastano le tre parole che fanno da sottotitolo al libro di Arslan per riassumere la straordinaria capacità di Buzzati nel raccontare storie attingendo “dalla cronaca e della realtà, ma trasfigurandola” e nel trasformare in favola ogni fatto di cronaca; basta una parola, bricoleur, per comprendere quanto Buzzati fosse “un accanito sperimentatore di forme diverse”, che affrontava con “inesausta curiosità” e “indaffarato eclettismo”. Per comprendere come, al momento di scrivere, Buzzati prendesse il mondo che lo circondava – personaggi, avvenimenti, emozioni, conflitti, esperienze che appuntava con “meticoloso realismo da giornalista di razza” – e lo scomponesse e ricomponesse per aprirlo “verso un mondo sopra-reale”: “le due realtà appaiono, così, contigue e in continuo contatto, e fluiscono l’una nell’altra con una naturalezza che sembra semplice e quasi spontanea, mentre invece è abile opera del demiurgo bricoleur”. Ma questo libro ci fa capire molto di più: perché ci regala un bel ritratto dell’uomo – elegante e affabile, era allo stesso tempo enigmatico, distaccato, schivo; alla giovane scrittrice che gli esprimeva il suo entusiasmo per gli articoli del “Corriere” rispose “con un sorrisetto”, prima di voltarsi e andare via: “si leggono facilmente, il difficile è scriverli” – e ci offre un percorso nell’intera opera, calandoci dentro “il mondo pieno di sorprese della scrittura di Buzzati”. Un sistema narrativo “abilmente calibrato intorno a certi termini-chiave” che riaffiorano con frequenza e aprono al fantastico, al surreale, alla dimensione spirituale. Termini come “in quel preciso momento”, “eppure…” e pochi altri, a cui aggiungiamo, grazie a Piero Chiara (Da scrittore a scrittore in Omaggio a Dino Buzzati. Scrittore Pittore Alpinista – Atti del Convegno, a cura del Circolo Stampa Cortina, Mondadori, 1977), “immemorabile”: parola che, nota Chiara, ritorna continuamente nel Deserto dei Tartari e con il suo significato di “non misurabile, non computabile, non misurabile neppure con la memoria” simboleggia l’idea dominante dell’intera opera di Buzzati. Quella di “un tempo che è fuori dalla realtà e che è il tempo non assoluto”.

Da qui, dal tempo e dall’attesa, torniamo al giornalista, al cronista di nera. Perché, come Buzzati stesso raccontò, senza l’esperienza al “Corriere” il libro a cui è più legata la sua fama non sarebbe mai nato: “questa monotonia del lavoro (…) mi ha fatto venire in mente di scrivere una storia in cui venisse riassunto il destino dell’uomo medio, dell’uomo che spera in questa grande occasione, che fa di tutto per farla venire, e questa occasione appare, sembra che stia per realizzarsi, e poi scompare e se ne va via” (in Yves Panafieu). Se Giovanni Drogo, quindi, è vittima del tempo e consuma la sua vita nella fortezza in mezzo al deserto in attesa di un evento che deve compiersi, di una morte che deve arrivare, Dino Buzzati consuma le sue notti nel silenzio della redazione di via Solferino, in attesa delle notizie. Notizie che finiscono sui “libri mastri” di cronaca nera – fitti di nomi, elenchi dettagliati di morti ammazzati, incidenti, sparatorie, e anche di disegni, spesso ironici – che Buzzati compilava “registrando fatti e fattacci”. E che Lorenzo Viganò ha scelto di inserire, insieme a pagine dei giornali dell’epoca e a fotografie poco note, nel ricco apparato iconografico che accompagna l’edizione ampliata dei due volumi Crimini e misfatti e Incubi, che in La “nera” (Mondadori, 2002) raccoglievano i migliori articoli che Buzzati scrisse in più di trent’anni di fedelissima carriera al “Corriere della sera” e al “Corriere di Informazione” e che sono stati finalmente riuniti e ripubblicati.

Cronache di delitti grandi e piccoli con cui Buzzati, alla fine del ventennio fascista – durante il quale le notizie su omicidi e rapine erano state bandite dalle pagine dei giornali – contribuì a inventare la cronaca nera, nobilitandola e facendone “un vero e proprio genere, che unisce l’aspetto investigativo a quello letterario”. Cronache dei delitti più furibondi del secondo dopo guerra (pensiamo al caso di Rina Fort, che nel 1946 massacrò a colpi di spranga la famiglia del suo amante), dei gialli (come quello di Anna Maria Carlèsimo, che nascose in un baule il cadavere della madre, avvelenata, per “amore filiale”, con una dose di stricnina) e dei processi più celebri del tempo (a proposito del caso, seguitissimo, di Ettore Grande Buzzati scrive: “ancora una volta gli uomini, per distrarsi, avevano messo creature vive sul palcoscenico della loro romantica fantasia e, diciamo la verità, ci si erano terribilmente divertiti”), delle tragedie che sconvolsero l’Italia (nel primo articolo sul disastro del Vajont, leggiamo una delle descrizioni più belle e drammatiche : “un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi”).

Cronache, infine, che “riescono a disegnare un affresco dell’epoca, dell’ambiente, dei personaggi oltre a descrivere il fatto in se stesso, che spesso sembra essere usato solo come un pretesto” e, pur rimanendo sempre ancorati alla cronaca, vanno oltre, e diventano racconti, favole, confessioni. Dove la penna di Buzzati mostra in pieno il suo talento e il suo tratto inconfondibile, che lo distingue dai giornalisti che scrivevano “transitando”, come lui stesso diceva per definire quella cronaca mediocre in cui si condensavano tutti gli stereotipi della scrittura. Una scrittura che, in lui, vuole sempre svelare, con “precisione, scrupolo, eleganza”, il suo intero universo. “Il favoloso, il magico, il meraviglioso, l’assurdo, l’orrido, l’innocente vivono nella sua prosa come per trasparenza” (Geno Pampaloni) e scrivere racconti, romanzi o articoli di giornale è il modo per indagare il mistero dell’uomo e “tutto il dolore del mondo”. Perché, come scrive Buzzati raccontando il processo e la storia di Ilse Koch, la “belva di Buchenwald”, “nulla è più misterioso del cuore umano”.