Dörte Hansen – Tornare a casa

Il caldo laccio delle origini

di Anna Chiarloni

Dörte Hansen
Tornare a casa
ed. orig. 2018, trad. dal tedesco di Teresa Ciuffoletti,
pp. 310, € 18,50,
Fazi, Roma 2020

Si registra nella cultura tedesca degli ultimi decenni un interesse crescente per la campagna, il paesaggio e la storia locale – in una parola per la Heimat e le sue radici. È un atteggiamento che ha nobili tradizioni ottocentesche, basti citare le Wanderungen di Theodor Fontane, ma che il nazismo aveva poi sovreccitato col mito del sangue e della zolla fino a rendere la stessa Heimatliteratur un genere irricevibile nel dopoguerra, sia a est che a ovest. Un’inversione di tendenza l’aveva segnata a livello di massa il grande successo di Heimat (1984) il film che Reitz colloca nella sua regione natia, l’Hunsrück, sdoganando per i tedeschi quel senso di appartenenza nazionale a lungo rimosso dopo la catastrofe nazista. Il romanzo di Dörte Hansen s’inserisce in questa corrente, a suo modo antimetropolitana, ricca soprattutto dopo la riunificazione di epopee familiari individuate in ambiente regionale, ai margini della grande storia. Un testo letterario di riferimento Hansen ce l’aveva già in casa, è nata infatti nel 1964 a Husum, patria di Theodor Storm, il narratore della “piccola gente” di campagna – per dirla con il titolo di una delle sue raccolte più note Kleine Leute (1887). Ma se la prosa del noto esponente del realismo poetico riprende la sequenza luminosa di marine e dighe di una Frisia affacciata sul mare del Nord, la scrittura di Hansen è radicata nell’entroterra, e rigorosamente avulsa da qualsiasi concessione a un paesaggismo pittoresco. Si direbbe anzi che fin dall’incipit Hansen abbia voluto avvertire l’ignaro lettore semmai fosse in cerca di un qualche idillio campestre: “Di bellezza neanche l’ombra”. Granitico, solcato da tonanti Starfighter, è il cielo che gravita su Brinkebüll, dura la terra del villaggio morenico levigato dal ruvido vento del Nord.

Hansen ha studiato sociolinguistica e storia della Frisia, una formazione avvertibile nella trama che mette al centro una comunità esposta a partire dagli anni sessanta ai radicali cambiamenti di una riforma agraria destinata a spazzar via linguaggi, usi e antiche tradizioni locali. Il romanzo, teso su cinquant’anni di storia, ci presenta l’homo ruralis frisone con la sua etica del lavoro immessa nel ciclo della natura, con le sue antiche cadenze dialettali in basso tedesco. Un impianto sonoro che Hansen maneggia con finezza nel profilo espressivo dei personaggi ma che crea inevitabilmente qualche difficoltà di traduzione. Ciuffoletti opera saggiamente e come può, talora ignorando il dialetto, a volte declinandolo in veneto. Altrove sono le stesse scelte stilistiche di Hansen a rivelarsi insidiose per una efficace “esportazione” del testo. Mi spiego. A cornice della sua minuziosa e, diciamolo subito, affascinante ricostruzione di quel mondo rurale oggi scomparso, Hansen ha inserito una sorta di colonna musicale, un bordone continuo che cuce un capitolo all’altro attraverso i titoli di canzoni in voga nella Germania di quegli anni. Ora, se per il lettore tedesco quei refrain richiamano una certa atmosfera, le stesse parole, una volta tradotte restano per così dire afone, prive di quell’amarcord che risuona invece nell’originale (provare per credere: si clicchi il primo titolo – Ich schau den weissen Wolken nach – ecco il sound della Germania anni sessanta, con tanto di castigatissima cantante in occhiali e maglietta accollata). Detto questo, non si scoraggi il lettore, il romanzo ha diversi pregi, a ben guardare persino una valenza europea, nel senso che sollecita un utile confronto tra la gestione del territorio tedesco – costretto a una monocroma modernità dalla pesante mano dello stato – e il nostro patrio suolo, frantumato in mille rivoli di improvvisata anarchia. La storia è di prima mano, vale a dire in parte autobiografica, la cifra di fondo è la nostalgia per una comunità contadina scomparsa. Una perdita inevitabile, certo, a tratti addirittura condivisa: una sorta di naufragio volontario nelle braccia del moderno confort, fatto di asfalto e pale eoliche, scuolabus e impianti fotovoltaici. Un libro di memoria, questo, narrato lungo tre generazioni nel tempo fluttuante tra infanzia e età adulta di Ingwer Feddersen, il protagonista del “ritorno a casa”. Quasi cinquantenne, è lui – preso tra due battenti esistenziali – a dirci il dilemma della scelta: tra la siccità di sentimenti di un evoluto ambiente urbano e il caldo laccio delle origini. Sì, perché Ingwer ce l’ha fatta a salire la scala sociale, ha studiato archeologia a Kiel e ora, accademico in sabbatico, torna al paesello natio. Cosa si lascia alle spalle? Qui Hansen non perde l’occasione per lanciare qualche strale a un certo strato sociale, già bersaglio del suo primo romanzo, Altes Leben (2015). Ingwer è infatti reduce da un grigio ménage à trois, governato da Ragnhild, maschera viperina di altoborghese pentita, assecondata da Claudius, uno snob nullafacente. Sono pagine appena schizzate e in fondo convenzionali. È per contro nel respiro della terra di Frisia che Hansen rivela il suo polso di scrittrice. Da quel passato rurale emerge un insieme di volti e saperi, una xilografia incisa nel legno vivo di una comunità un tempo integra. Epicentro del testo è la locanda dei Feddersen. Qui cantava Marret, la madre adolescente di Ingwer, forse la figura più intensa, inedita espressione di un candore offeso, di un grembo espropriato, in rivolta contro il frutto di un inganno. È la voce profetica che attraversa il testo annunciando la fine di un’innocenza, travolta essa stessa dalla follia. Sarà il padre di Marret, Sönke, ad allevare Ingwer, bimbo di padre ignoto e figlio di un doppio abbandono. Una pagina indimenticabile, di sapiente gestualità, quella in cui questo nonno con uno scatto imperioso da patriarca, s’infila il fantolino infreddolito sotto la camicia, per crescerlo poi come sutura di espiazione della storia tedesca. Una forma di tranfer sorretto dalla moglie Ella, figura di paziente coraggio, determinata fino allo stremo a curare gli inciampi della vita con le sue silenziose mani operaie.

Intorno corre il fervore artigiano di Brinkebüll. Interessanti gli squarci di vita quotidiana, immagini che richiamano i dipinti di Bruegel: quel pattinar sul ghiaccio, la fatica ma anche i balli di paese, l’alba a mungere nella stalla ma anche il rito della siesta: un’usanza frisona da cui discende il titolo originale, Mittagsstunde. E leggono pure questi contadini – ecco il lascito luterano!, in paese c’è una biblioteca governata da Steensen, burbero e saggio maestro di scuola che pare uscito dal libro Cuore, solitario artefice dell’emancipazione di Ingwer. Il ritorno a casa dell’accademico è dunque anche un atto di restituzione verso quel mondo che lo ha allevato. E il villaggio ancora sembra avvolgerlo come una tana difensiva, con i sapori dell’infanzia e il fiato dei suoi vecchi, ormai fragili, sul ciglio del congedo. Ma è un’illusione, da tempo in paese i fuochi sono spenti. Nel romanzo Ingwer farà ritorno a Kiel. Nella realtà invece, Dörte Hansen dopo aver girato l’ampio mondo, è tornata a vivere a Husum, dov’è nata.

anna.chiarloni@unito.it

A. Chiarloni è professore emerito di letteratura tedesca all’Università di Torino