I racconti di Poe e le traduzioni di Manganelli | Dall’archivio

Due modi di leggere un manierista

dal numero di aprile 1999

di Gianfranca Balestra

Il linguaggio di Edgar Allan Poe costituisce un problema critico aperto, problema che si propone con rinnovata attualità ogniqualvolta se ne affronti la traduzione. I numerosi studi che in tempi recenti si sono riversati sulla sua opera in chiave psicoanalitica, strutturalista e post-strutturalista hanno sondato le profondità del suo immaginario, rilevato i meccanismi compositivi, indagato le problematiche di autoreferenzialità del linguaggio, ma hanno solo sfiorato il discorso sullo stile. Permane nella critica di lingua inglese il disagio, se non l’ostilità, riguardo agli eccessi del linguaggio, che appare enfatico e verboso, rigonfio di citazioni straniere e di parole di origine latina. L’artificiosità, la parodia, il grottesco sono registri sempre in bilico fra invenzione originale e goffa caduta. Ancora di recente Harold Bloom propone di studiare indipendentemente il significato e il significante, sostenendo che le dinamiche psicologiche e i riverberi mitici dell’opera di Poe sopravvivono “nonostante” la sua scrittura, mentre il testo può solo trarre vantaggio da una buona traduzione. Questo discorso evoca inevitabilmente i fantasmi di Baudelaire e di Mallarmé, che tanta parte ebbero nel creare il mito di Poe in Francia. E ritorna alla mente il giudizio di T.S. Eliot, condiviso da molti, che riteneva le loro traduzioni di gran lunga superiori all’originale.

La fortuna letteraria di Poe in Italia è stata meno vistosa e immediata, tuttavia l’interesse non è mancato e ha coinvolto scrittori e studiosi in traduzioni di orientamento diverso ma di eccellente qualità. Ne sono testimonianza esemplare due volumi recenti: I racconti nella versione di Giorgio Manganelli e II racconto di Arthur Gordon Pym in quella di Roberto Cagliero. Pubblicata in origine da Einaudi nella collana “Scrittori tradotti da scrittori”, la traduzione dei racconti compare oggi nei prestigiosi “Millenni”, corredata da una introduzione di taglio biografico di Julio Cortàzar che in verità pare poco in sintonia con l’operazione condotta da Manganelli: in effetti essa è ripresa da un raffinato volume di Franco Maria Ricci, che presentava per la prima volta in modo completo le illustrazioni di Alberto Martini per l’opera di Poe. Alcuni di quei disegni sono qui riprodotti, accanto a quelli di Dorè, Beardsley, Evenepoel, Dulac e altri, a ricordare lo straordinario stimolo immaginativo esercitato da Poe sugli artisti figurativi europei di area simbolista e decadente. Questa la veste “esteriore” del volume, che pure dice molto sui meccanismi di trasmissione culturale.

Ma veniamo alla traduzione, che lo stesso Manganelli dichiarava “passionale, con qualche scrupolo filologico”. Egli vi imprime in effetti un segno riconoscibile e forte, e pur ponendosi in sintonia con il testo di partenza, manipola il linguaggio secondo invenzioni e toni personali. Non si tratta dunque di una versione strettamente letterale, ma di un tentativo di riprodurre piuttosto le emozioni del testo, il filo sotterraneo che lo percorre. Certo, in questa prospettiva è difficile distinguere la voce di Poe da quella di Manganelli, le sovrapposizioni e le prevaricazioni sono sempre in agguato. E tuttavia il tono di Poe, la sua cifra spesso manierista riesce ad emergere in più di un’occasione. Se è vero che il linguaggio di Poe abbonda di un lessico di origine latina che risulta fastidioso all’orecchio inglese, una traduzione letterale appiattisce l’effetto di ridondanza, proponendo in italiano forme che corrispondono alla norma. Ecco allora che Manganelli opera uno scarto ulteriore, accentua l’uso di parole desuete e raffinate, arcaizzanti e di nuovo conio, riuscendo talora a rendere un’atmosfera linguistica piuttosto che l’identità della singola parola. I cieli scuri sono allora caliginosi, decidui i tronchi e decidua la desolazione, badiale il paradosso, sgomentevoli i sogni e le fantasticaggini, un personaggio appare addobbato di abbondevole decoro, e cosi via. Operazione complessa e rischiosa, discutibile eppure affascinante.

In tutt’altra direzione si muove Roberto Cagliero, con la sua traduzione de II racconto di Arthur Gordon Pym, proposta nei “Grandi Libri” Garzanti con una densa introduzione di Francesco Binni. Lo stesso traduttore colloca la propria versione non accanto a quelle forti, marcate dalla mediazione di chi traduce, bensì tra quelle che definisce “positivamente riduttive, nel senso che in esse indizi perennemente slegati si riducono a prove confutabili, rilanciando la lettura come gioco di indagini”. Posizione criticamente fondata, ma compito difficile per il traduttore che si trova spesso obbligato a prendere posizione, a compiere delle scelte che implicano l’interpretazione. E le scelte compiute appaiono in genere felici, attente a lasciare trasparire le anomalie e gli eccessi del linguaggio di Poe, che una frequentazione assidua consente di riconoscere e ricondurre al suo codice peculiare e al suo immaginario.

Anche in questo caso si tratta di un vero e proprio duello con le manie di un testo stilisticamente eterogeneo. Giudicato da Auden uno dei migliori racconti d’avventura mai scritti, il Gordon Pym si costruisce come un collage di generi letterari, di fonti (diari e relazioni di viaggio) e di registri linguistici, da quello pseudo-scientifico a quello lirico-meditativo. Trattandosi in primo luogo di un’avventura per mare — non a caso l’edizione Mursia portava il titolo Gordon Pym e altri racconti di mare — il gergo marinaresco sovraccarica il romanzo di termini tecnici, che tuttavia, come spesso in Poe, non sempre sono affidabili. In questo ambito la scelta è stata quella di adottare, quando si presentavano alternative, il termine meno specialistico, piuttosto che attenersi a una rigida aderenza letterale.

Invertendo i termini di Manganelli si potrebbe in questo caso parlare di versione “filologica con momenti appassionati”, dove la passione è quella dello studioso coinvolto nei meccanismi delle geometrie di Poe. Mi limiterò a citare un esempio di prevaricazione in positivo, ascrivibile appunto alla passione intellettuale. La parola rookery che sta ad indicare la colonia di pinguini e di albatri e che la maggior parte dei precedenti traduttori aveva lasciato in inglese, diventa qui scacchiera, con invenzione che ben visualizza la delimitazione dello spazio operata dalla fauna antartica, rimandando peraltro a temi e geometrie presenti in altri racconti.

La presente traduzione ha poi il vantaggio, ma anche lo svantaggio, di doversi confrontare con le precedenti traduzioni da un lato e con le numerose esegesi dall’altro. Scrittori e studiosi illustri come Elio Vittorini, Gabriele Baldini, Ezio Giachino, per citare solo alcuni nomi, avevano già affrontato il Gordon Pym, fornendo al lettore italiano versioni su più registri e al traduttore una sorta di palinsesto da cui prendere le mosse. Da queste premesse parte quindi l’avventura traduttiva di Cagliero, che si muove con perizia fra scogli e abissi di un percorso accidentato, superando i pericoli con moderna consapevolezza.