Federica Manzon – Il bosco del confine

Un sottile scrutare

di Marta Barone

Federica Manzon
Il bosco del confine
pp. 173, € 14,
Aboca, Sansepolcro AN 2020

“In autunno facevamo lunghe passeggiate nel bosco”. Comincia così questo breve romanzo traboccante di temi fondamentali, il quarto di Federica Manzon, pordenonese di nascita e milanese d’adozione. Una ragazzina e suo padre vanno spesso in un bosco, a cercar funghi o più semplicemente a camminare: l’atto puro, inutile e quindi intimamente artistico del camminare senza scopo, soprattutto in un luogo libero e apparentemente sconfinato (le selve della nostra infanzia sono sempre infinite) com’è il bosco, un camminare senza necessità logica, senza una meta, senza cartina, un camminare che è solo il proprio corpo e il proprio passo e il respiro e allo stesso tempo apre alla visione, all’osservazione, al pensiero (“Come se guardassimo il mondo per la prima volta,” dice il padre). Quelle che Manzon dedica al camminare sono forse le pagine più belle del libro. Il bosco, però, è appunto un bosco di confine, tra Italia e Jugoslavia, alla fine degli anni settanta: ma la ragazzina (che conosceremo solo con l’affettuoso soprannome di Schatzi) e il padre ci vagano senza troppo preoccuparsi di cosa è là e cosa è qua, perché il padre è un ironico e accanito nemico dei confini, e per lui il bosco è il territorio per eccellenza non-territorio, dove prima di loro vagabondi, poeti, filosofi, soldati e fannulloni hanno camminato per tutta l’Europa, e non ci sono confini per un ramo d’albero che oltrepassi ciò che in fondo è solo una convenzione umana. Poco importa che di tanto in tanto nel bosco “di là” compaiano soldati in marcia, e che i segnali di confine ci siano eccome.

Schatzi incontra infine il mondo “di là” prima che quel mondo si sfracelli, quando il padre le regala i biglietti per le Olimpiadi di Sarajevo del febbraio 1984. E a Sarajevo incontra un suo simile, Luka, che le regala la città e l’altro mondo a piene mani, comprese le sue oscurità che già balenano come veloci, cupi fuochi fatui premonitori di sventura, un altro camminatore, un altro che sa affrontare i boschi di notte, con la neve, per spirito d’avventura e di sfida. In questo romanzo sono i ragazzini i dominatori del bosco, del selvaggio e di un concetto di Europa che non sta solo nel pensiero espresso, ma letteralmente nei piedi liberi e selvatici di quei ragazzini, nei loro scarponi che sanno e non sanno. “Mi viene in mente un verso di una poesia di cui non ricordo l’autore: ‘Di chi sia il bosco non credo di sapere’. Il bosco non è di nessuno, dice mio padre. Il bosco è di Luka, penso”, si ritrova a dirsi Schatzi, seguendolo sul fango e sul ghiaccio.

Solo molto dopo quella notte adolescente sulla neve il confine si accenderà infine nel bosco del padre di Schatzi come una spaccatura nella terra infuocata e insormontabile, verrà la guerra, l’assedio di Sarajevo, da cui arrivano dispacci per la protagonista da Luka, con il racconto delle sue giornate lente e mostruose, dei suoi amici finiti tra gli assassini più feroci, delle gare coi cecchini, dei bombardamenti. Poi Luka smette di scriverle all’improvviso. Moltissimi anni dopo la protagonista ormai adulta, che ha lasciato Trieste e ha smesso di camminare nei boschi, torna a cercarlo: ma ci sarà un rivolgimento ulteriore, che spezza il pathos e riporta in un post-guerra dove non tutto è ciò che pensiamo, o che vorremmo.

Con una bella prosa limpida, netta, priva di orpelli di colore locale, di grande precisione anche quando nomina gli alberi e i funghi (Nabokov sarebbe contento), in cui si sente l’influenza del grande scrittore bosniaco Aleksandar Hemon, il quale presenzia in un cameo senza essere nominato in modo esplicito, una scrittura di dialoghi e fatti che solo raramente si concede aperture liriche come la bellissima descrizione del fiume di Sarajevo dall’alto, Manzon tenta dunque un romanzo davvero europeo, colmo di interrogativi sulle multiple identità che possediamo, sulla fugacità dei punti fermi, su cosa sia davvero un confine; ma soprattutto racconta dell’imponenza impotente di una natura che permane e guarda muta la storia, dove non è possibile trovare senso o risposte ma solo immergersi, faticare, perdere il senso dello spazio e del tempo per poi vedere, forse, meglio il mondo che c’è fuori.

barone.marta@gmail.com

M. Barone è traduttrice e scrittrice