Dove sono finiti i cattivi? | Il Mignolo

Segnali: i cattivi

di Nicoletta Gramantieri

Alison Lurie in Non ditelo ai grandi (Mondadori, 1993) suggerisce, nel caso volessimo sapere in un certo periodo cosa la cultura dominante tenda a escludere, di “dare un’occhiata ai libri per ragazzi e ascoltare le canzoncine che cantano sui campi da gioco scolastici”. Se si segue il suggerimento e ci si concede una panoramica sull’abbondante editoria per bambini e ragazzi si finisce per rilevare una tendenza che sembra confermare quanto afferma Milena Bernardi in Letteratura per l’infanzia e alterità (FrancoAngeli 2016): il fatto, cioè, che “il turbamento che l’aver paura comporta non si coniuga col modello dominante di una società felice”.

In effetti la prima impressione che si ha sfogliando albi illustrati e romanzi è che la letteratura per l’infanzia sia costretta in un ambito didascalicamente educativo, ridotta a strumentino semplice e immediato per fare fronte a bisogni e bisogne che parcellizzano la crescita individuale e le sue possibilità in atti singoli da affrontare, superare e risolvere, per procedere verso un obiettivo illusorio che tende a semplificare e a escludere la problematizzazione e la complessità. Quei lupi buoni e talvolta sciocchi che troviamo nelle storie per i più piccoli si trasformano spesso, quando le narrazioni si rivolgono a ragazzi più grandi, in bulli, terroristi, persecutori, assassini che radicano e giustificano le loro azioni in una sofferenza che chi legge si sente costretto a comprendere e accogliere. Se guardiamo a questo tipo di narrativa siamo indotti a concludere, spinti da autori e narratori che ci indicano chiaramente quello che dobbiamo pensare, che i cattivi non esistono. Questa, naturalmente è solo una prima impressione, superficiale e inesatta che ha, però, il pregio di aprire a considerazioni varie e a pensieri non univoci.

Non si può tentare di ragionare attorno ai cattivi in letteratura senza rifarsi a Vladimir J. Propp. Nella Morfologia della fiaba (Einaudi 2000) abbiamo infatti modo di leggere che “il suo ruolo è quello di guastare l’atmosfera (…) il cattivo può essere un drago, il diavolo, i banditi, la strega, la matrigna e così via”. Ci dice Propp che il cattivo è semplicemente una funzione narrativa, qualcosa che permette alla storia di articolarsi e procedere. Qualcosa che, come ci ricorda Peter Brooks, eccede a quella normalità che non è cosa che sia consona o ben accetta alle narrazioni perché priva di interesse dal punto di vista narrativo. Il cattivo, suggerisce ancora Brooks in Trame (Einaudi 2004), è “figura deviante, arabescata, capricciosa, ultimo rifugio del raccontabile, è l’opposto della linea retta, si identifica con il plot, un modo per mantenere tutte le digressioni possibili fra inizio e fine affidandosi al gioco dei ritardi”. Narrativamente il cattivo è ciò che si oppone al finire, il cattivo realizza una tensione, deviante e trasgressiva, che impedisce che le storie volgano troppo in fretta al termine.

Insomma, le articolazioni narrative, le storie, senza cattivi sarebbero noiosissime e finirebbero col non soddisfare quel bisogno umano, sottolineato da Peter Bichsel, Jonathan Gottschall, Peter Brooks e moltissimi altri, di riandare, tramite l’estensione, la consequenzialità e la cronologia delle narrazioni, alla possibilità di rendere senso e significato agli eventi della propria esperienza. Le narrazioni si sviluppano là dove c’è un’ombra da indagare, quell’ombra che Marie-Louise von Franz ritrova nelle fiabe e che secondo Jung si forma attraverso la rimozione di certe caratteristiche, sia individuali che collettive, non accettabili socialmente.

Allo stesso modo Freud, interrogandosi attorno alle produzioni estetiche e artistiche, riconosce come “la vera ars poetica consista nella tecnica per superare la nostra ripugnanza, la quale è certo in connessione con le barriere che si elevano fra ogni singolo io e gli altri”. Le opere d’arte, ci dice Freud in sostanza, ci permettono di accedere a contenuti, individuali e collettivi, che fanno parte del nostro essere nel mondo, in noi e nelle relazioni, ma non possono essere affrontati direttamente. La letteratura si fa travestimento e porta di accesso per una materia che in altro modo risulterebbe innominabile ed estranea. Il fatto estetico, la forma, la metaforizzazione divengono strumenti di indagine per i fatti che ineriscono la vita. Funzione della letteratura è dunque anche indagare il male e aiutare gli umani attraverso le storie a chiedersi e dirsi. E molte fra le produzioni di letteratura per ragazzi a questa funzione assolvono egregiamente. Penso ad albi come La scopa della vedova di Van Allsburg (Logos 2013), che attraverso elementi fantastici crea la distanza sufficiente per articolare pensieri attorno all’alterità e al timore della diversità; o a quel capolavoro che è Regole dell’estate di Shaun Tan (Rizzoli 2015), che nelle immagini fortemente evocative e nel testo scarno, capace di lasciare spazio al lettore, mette in gioco l’umana ambiguità e difficoltà in relazione a rapporti e ad affetti.

Ci sono poi opere che si legano al fiabesco e grazie al fiabesco suggeriscono e invitano ad accogliere e indagare inquietudini e doppiezze. Nel bosco di Antony Brown (Kalandraka Italia 2014) ci porta a contenuti forse difficilmente praticabili. È nella messa in scena di quella foresta trasudante di fiabesco, di quelle illustrazioni che celano e rivelano fiabe, personaggi, nefandezze, che troviamo la distanza perfetta per ordire pensieri attorno alla famiglia, ai ruoli e alle relazioni. In quegli alberi contorti, in quelle gabbie nascoste e poi rivelate, nell’evocazione di lupi e streghe e abbandoni, troviamo gli spazi utili all’osservazione e alla ricerca. Lo stesso incontriamo nelle poesie di Silvia Vecchini in In mezzo alla fiaba (Topipittori 2015). Qui la forma poetica, l’esattezza o l’inesattezza stupita dei versi, il ricorso massiccio al fiabesco ci permettono di confrontarci direttamente col male. In questo caso è la parola poetica che si fa svelamento, varco di accesso e di pensiero. Esiste, in relazione alla messa in scena dei cattivi o del male in genere, un ulteriore problema che inerisce alla letterarietà. Si tratta di un aspetto che Rossano Baronciani nel suo La società pornografica (Effequ 2016) definisce, appunto, come pornografia. “Pornografico” ci dice “è porre una lucentezza intensa sopra ciò che non deve essere visto, e il cono d’ombra che si propaga tutto intorno a quella luce abbagliante è in definitiva ancora più buio, più oscuro”. Molti sono i romanzi che compiono questa operazione: penso a molte opere di autori italiani o ad alcune opere del britannico Brooks, che del male fanno fulcro della narrazione, enucleandolo, rendendolo evidente, sottolineato, in qualche modo didascalico. Si tratta di solito di narrazioni che riproducono la quotidianità in modo mimetico senza lasciare reale spazio al lettore e alla sua esperienza.

La lucentezza esposta di cui ci parla Baronciani contrasta visibilmente con quell’intermittenza che Barthes rilevava come fonte di piacere e di letterarietà: “La parte più erotica di un corpo non è forse dove l’abito si dischiude? Nella perversione (che è il regime del piacere testuale) non ci sono zone erogene; è l’intermittenza, come ha ben detto la psicoanalisi, che è erotica: quella della pelle che luccica fra due capi (…) fra due bordi (…); è proprio questo scintillio a sedurre, o anche: la messinscena di un’apparizione-sparizione”.

Ci sono autori che di questa apparizione-sparizione si fanno maestri. I personaggi di David Almond, le ali dello sporco barbone Skellig, la presupponenza creatrice del personaggio di Argilla, la complessità dei protagonisti di Marie-Aude Murail sempre tesi in atti quotidiani che è difficile ascrivere al bene o al male, la stessa ambiguità del pulcino mascherato di Claude Ponti, il male metaforizzato di The Stone di Guido Sgardoli (Piemme 2014) o quello dei capolavori di King, lo spettro sanguinante nel Piccolo regno di Wu Ming 4 (Bompiani 2016) riescono a portare il lettore in equilibrio su quel margine, a spaventarsi di fronte a eventi, atti, costrutti che appaiono tanto più terrorizzanti, come sostiene Stephen King in On writing (Sperling & Kupfer 2017), quanto più riusciamo a percepirli “vicino alla realtà”. Non sovrapposti alla realtà, ma vicini alla realtà. La sovrapposizione non lascia spazio al pensiero, la vicinanza presuppone anche la presenza di una distanza che lascia spazio ai pensieri di chi legge. Non disperiamo dunque. A un primo sguardo potrebbe sembrare che i cattivi stiano sparendo dalle pagine dei libri per bambini e ragazzi, ma in realtà, a ben guardare, essi godono di ottima salute. Anzi, potrebbero essere proprio loro a indicarci con la loro presenza ambigua, evocativa, incerta, ciò che, nell’abbondanza inusitata dell’editoria di questi anni, si delinea come letterariamente interessante.

N. Gramantieri è responsabile della Biblioteca Salaborsa ragazzi di Bologna, studiosa di letteratura per ragazzi e scrittrice