Gastone Novelli – Scritti ’43 – ’48

di Matteo Moca

Gastone Novelli
SCRITTI ’43-’68
pp. 308, € 25,
Nero Editions, Roma, 2019

Nella notte del 24 ottobre 1943, Gastone Novelli, nato nel 1925 a Vienna, figlio di una nobildonna austriaca Marherita Meyer von Ketschendorf e di Ivan Novelli, addetto militare presso l’Ambasciata italiana viennese, viene arrestato dai soldati tedeschi perché impegnato nell’organizzazione della resistenza romana: “tirato giù dalla macchina e legato – racconta Novelli – dovevo essere investito con la macchina sopraggiunta. In punto di morte davo l’addio alla vita gridando viva l’Italia e viva Savoia”. Ma gli ufficiali delle SS cambiano idea e, scartata anche quella di una successiva esecuzione nel carcere di regina Coeli, grazie alla mediazione della madre presso le alte cariche del governo tedesco, commutano la pena di morte in trent’anni di carcere. Parte proprio dal racconto autobiografico di quelle notti il volume Scritti ’43 – ’68, curato da Paola Bonani dell’archivio Gastone Novelli di Roma e pubblicato da Nero in un’edizione impeccabile (ognuno dei testi è introdotto da un breve ma fondamentale cappello che situa lo scritto nell’esperienza dell’autore), un volume che raccoglie tutti gli scritti di Gastone Novelli, rendendo nuovamente disponibili contributi apparsi su riviste o cataloghi d’arte, ma anche inediti e prose private.

L’incipit di questo volume è dunque rappresentato da un’esperienza che nasce nel cuore del secondo conflitto mondiale e rasenta da vicino la morte (ed esemplari sono anche i successivi scritti dal carcere, dalla convinta espressione di uno spirito antifascista nella Lettera dal carcere, alla cronaca dell’esperienza in cella fino alla liberazione americana di Roma e l’uscita dalla prigione: “uscimmo tutti in fila ed in silenzio come stupiti dal miracolo della libertà a cui tutti avevano quasi rinunciato”), mentre la chiusura è affidata a un evento altrettanto decisivo per la sua esistenza, certo meno violento rispetto al primo, ovvero il boicottaggio della Biennale di Venezia del 1968. Ma prima di parlare della fine, Novelli morirà nello stesso anno, poco più che quarantenne per alcune complicazioni successive a un intervento chirurgico, è importante comprendere come dal giovane partigiano si giunga all’artista completo che espone alla Biennale, e per fare questo, il volume di Nero costituisce certo una via privilegiata, se non l’unica. Nel 1948 Novelli si trasferisce in Brasile e lì, nel 1950, scrive il suo primo testo sulla pittura, emblematicamente intitolato Siamo arrivati al momento di costruire, dove si interroga su cosa significhi dipingere e quali debbano essere le motivazioni e le finalità: “Cosa è reale, astratto, surreale? Sono parole inesatte legate a una fraseologia superficiale. Una sola cosa deve essere reale per ogni pittore: la sua pittura. […] Il soggetto, sia esso un punto od un paesaggio, una forma od una figura, va prima di tutto capito, digerito perché se ne formuli un’ipotesi”.

In Brasile Novelli inizia infatti a dipingere con costanza: tornato in Italia nello stesso anno, e allestita la sua prima personale a Roma, continua a lavorare sulla sua arte e pian piano abbandona il linguaggio espressionista che segna i suoi esordi per dedicarsi a ricerche nel campo “dell’astrazione concretista”, definendo un “nuovo oggetivismo” che trova sua cifra caratteristica in una concezione dell’immagine e dell’oggetto che sia in grado di staccarsi dall’abitudine e dalle concezioni radicate in cerca di una propria, e decisiva, autonomia rappresentativa. All’interno di questa idea di fondo, che gli permette di figurare anche come una mente creatrice autonoma rispetto al grande movimento dell’arte concreta, assume un valore decisivo il linguaggio e la parola. Anche la parola deve subire infatti lo stesso processo di pulizia dell’immagine per agguantare la sua natura più profonda, e il perpetuo interesse per la lingua e il linguaggio e la ricerca sulle potenzialità dei segni, aspetti che trovano testimonianza decisiva in queste pagine, sostiene ancor di più la necessità di non considerare Novelli solo come un pittore d’avanguardia.

Facendo riferimento a questa attenzione precipua nei confronti dell’universo della parola, è ancor più comprensibile l’esperienza della rivista Grammatica, nata nel 1964 e che ha tra i redattori lo stesso Novelli in compagnia di Alfredo Giuliani, Achille Perilli e Giorgio Manganelli (nel quale trovò uno straordinario spirito affine quando lesse Hilarotragoedia, pubblicato sempre nel 1964, per il quale preparò una serie di straordinarie illustrazioni): su quella rivista, i cui numeri pubblicati quando Novelli è ancora in vita coincidono con il suo apice artistico, la riflessione teorica di Novelli si fa estremamente densa e precisa. Oltre alla trascrizione della bella discussione tra i redattori ed Elio Pagliarani e Nanni Balestrini (La carne è l’uomo che crede al rapido consumo), incentrata su temi cari anche a Novelli, come il rapporto tra il linguaggio e la realtà o tra l’arte e la società, spicca il saggio Pittura procedente da segni, lo scritto nel quale vengono esposti in maniera più limpida i principi fondanti della sua poetica. In questo scritto Novelli spiega la sua predilezione per i segni elementari (“i segni sono concreti quanto le immagini, ma hanno un loro potere referenziale per cui, anche essendo relativi essenzialmente soltanto a se stessi, possono fare le veci di qualche cosa d’altro. Per questo motivo mi interessa procedere dai segni e dalle lettere”), la distinzione tra il linguaggio magico e quello accademico, con il primo, più autentico, che “elabora un sistema strutturato utilizzando residui e frammenti “testimoni fossili della storia di un individuo o della società”, fino alla preminenza, nella costruzione di un’opera, del momento dell’esecuzione, superiore all’occasione e alla destinazione della stessa.

Come detto in precedenza, la parte finale di questo volume è dedicata a ciò che accade durante la Biennale di Venezia del 1968. L’apertura della kermesse è fissata per il 18 giugno, ma quel giorno si presentano duri scontri e violenze tra la polizia e i manifestanti (momenti immortalati dalle splendide foto di Gianni Berengo Gardin): in segno di protesta e assoluta disapprovazione per ciò che è accaduto, molti padiglioni vengono boicottati dagli artisti e così fa anche Novelli, che decide di rigirare le sue tele ed esporre così solo il retro, dove ha scritto “la Biennale è fascista”.

Si tratta di un evento più comprensibile all’interno di quel clima politico e sociale che già aveva trovato sfogo nella protesta alla Triennale di Milano, ma che certamente costituisce un momento eclatante nella carriera di Novelli. Prendendo simbolicamente la serie di questi scritti come il racconto della vita del suo autore, in questo momento, prossimo alla morte, emerge la natura di uno spirito militante (una militanza, a dire il vero, sempre lontana da qualsiasi inclinazione intellettualistica e borghese) di Novelli che si riallaccia direttamente alle prime pagine del racconto della prigionia durante la Resistenza e che attraversa con importante rilevanza tutta la sua arte, unendo la ricerca, il linguaggio e, appunto, la politica. “Fare quadri è agire all’interno di un linguaggio, è ricerca di un universo possibile, e soprattutto non è un’azione divulgativa; è politica perché è rifiuto del preesistente, o scelta, ma comunque ridiscussione”, scriverà poco dopo la Biennale Novelli, ma anche l’ultimo pezzo di questa preziosa raccolta, nella sua ultima frase, si concentra ancora, e in maniera definitiva, sul rapporto tra arte e società: “La funzione sociale, il legame delle opere con la società, e la sua possibilità di contribuire alla sua trasformazione, dipende dall’uomo che è dietro ad esse. Se uno vive il proprio momento storico, la sua opera, qualsiasi ne sia la forma, sarà un’opera di contestazione”.

matteo.moca@u-paris10.fr

M. Moca è dottore di ricerca in italianistica e insegnante