Giulia Caminito – L’acqua del lago non è mai dolce

Per un’etica del riuso

di Mattia Venturi

Giulia Caminito
L’acqua del lago non è mai dolce
pp. 304, € 18,
Bompiani, Milano 2021

Non c’è niente di più sbagliato che considerare L’acqua del lago non è mai dolce un romanzo di formazione. Alla sua terza prova letteraria, Giulia Caminito presenta al lettore una situazione non dissimile dai due romanzi precedenti (La grande A, edito da Giunti, 2016 e Un giorno verrà, edito da Bompiani, 2019), legati apparentemente ad alcune storie della famiglia dell’autrice. In tutti e tre la vicenda ruota attorno a due figure femminili: una madre forte e battagliera e una figlia che fatica a trovare la propria identità. Per essere un romanzo di formazione avrebbe tutte le carte in regola, a partire dallo stile: è una voce, quella della protagonista Gaia, che – colta dall’ansia di nominazione – scandaglia ciò che le si para di fronte; il suo sguardo legge il mondo e lo restituisce al tempo presente, trasfigurato. Stupore è la parola che meglio si addice alla prosa di Caminito. Lo stupore di chi guarda per la prima volta.

Caminito, giovani più autolesionisti - Libri - Un libro al giorno - ANSAGaia viene da una famiglia sottoproletaria della periferia romana, anche se non ama chiamarla periferia, perché “per essere periferia devi aver presente quale sia il tuo centro”, e Gaia non ha mai visitato il Vaticano, Villa Borghese o piazza del Popolo. La casa in cui Gaia vive con la famiglia non è loro: è una casa occupata di cinque metri per quattro. Il padre, Massimo, è un uomo spezzato – letteralmente – da una brutta caduta nel cantiere in cui lavorava in nero, e quindi senza assicurazione. Un “uomo fermo”, fatto di marmo. A reggere da sola le mura di casa è Antonia, infaticabile e inflessibile, e con un senso di giustizia che applica anche alle minuzie del quotidiano: a una lamentela corrisponde una cena non preparata; a una richiesta non esaudita, un letto lasciato disfatto. I quattro figli di Antonia imparano presto l’arte di arrangiarsi della madre, un’etica del riuso che Antonia oppone – facendo di necessità virtù – all’imperativo dell’obsolescenza e della sostituzione. Gaia si vergogna di avere sempre la mala copia di ogni cosa, ciò che gli altri buttano, anche della propria casa, l’accampamento nel quale Antonia si rifiuta persino di piantare dei fiori, perché “piantare vuol dire rimanere”. E Antonia fa di tutto per sottrarre i figli al degrado di quella periferia che non è periferia perché non ha nessun centro, e ci riesce. Dopo un breve soggiorno in una palazzina dei Parioli, la famiglia approda in un luogo da chiamare casa: Anguillara Sabazia, sulle rive del lago di Bracciano. Un paese dove si sa tutto di tutti. Per questo è bene non parlare troppo: della casa dicono solo che la abitano, di Massimo che è invalido e nient’altro.

C’è in particolare una convinzione che Antonia trasmette alla figlia, e cioè l’idea dello studio come speranza e riscatto; la lettura come unica possibilità di emancipazione, di rivalsa sociale. Gaia legge tutto quello che Antonia le propone, anche se spesso, invece di nobilitarla agli occhi dei coetanei, la lettura la esclude. È sulle rive del lago che per Gaia la letteratura diventa riconoscimento, anziché esclusione, e succede grazie all’amicizia con Iris, una ragazza che ha letto gli stessi libri, e che vive nelle case popolari, in un appartamento simile a quello di Gaia. Comincia il liceo, i lunghi viaggi in autobus verso Roma, le giornate di studio, i torridi pomeriggi trascorsi in riva al lago, le amicizie e i primi amori. Grazie a una serie di incontri e rispecchiamenti, il percorso di formazione di Gaia sembra imboccare un sentiero felice. Gaia cesella la propria identità per sottrazione rispetto all’altro e alla figura ingombrante della madre.

Eppure, la frustrazione innerva il romanzo dalla prima all’ultima pagina. La formazione di Gaia non può compiersi felicemente all’ombra dell’ideale di Antonia. Il filo rosso che Gaia si è ritrovata tra le dita e che ha seguito religiosamente sembra non condurre da nessuna parte: “Non ho messo soldi da parte con cui mi sarei potuta liberare dal fiato materno, mi sono concentrata solo sugli esami e i libri”. La consapevolezza acquisita è che non ci saranno onori, accortezze, ricompense anche una volta che avrà letto tutto e proprio tutto; una sentenza senza possibilità di appello pronunciata dalla professoressa di italiano: “mi ha chiesto se pensavo fosse il caso di mandare un curriculum a un supermercato, perché sì ho degli ottimi voti, ma guardiamo in faccia la realtà, con una famiglia come la mia, è il caso che cominci a lavorare”. Resta il senso di inadeguatezza e di impotenza, la vergogna per quello che Gaia non può avere. Un compendio di mancanze che è anche un inventario di feticci degli anni zero di fronte al quale la lettrice o il lettore tra i 25 e i 35 anni non potrà che provare nostalgia: gli sms, il Game Boy, Msn, la PlayStation, le Lelly Kelly luminose, i Chupa Chups, il McDonald’s, Italia Uno.

A Gaia mancano gli strumenti per agire: può conformarsi o soccombere ma deve comunque subire ciò che arriva dall’esterno, e la sua rabbia esplode sempre in maniera violenta dall’inizio alla fine del romanzo. È il ginocchio fratturato al compagno di scuola che le aveva rotto la racchetta, la macchina incendiata, l’amica Elena quasi ammazzata nell’acqua del lago. E se forse l’autrice non prefigura il fallimento in toto di un modello educativo virtuoso, non può che constatarne l’incapacità di incidere sul mondo e sulle aspettative di vita della protagonista. Dell’Acqua del lago non è mai dolce, come la negazione nel titolo lascia presagire, si fa prima a dire quello che non è. Non è romanzo di formazione e nemmeno – come l’autrice stessa si premura di specificare nella Postfazione – “biografia, né una autobiografia, né una autofiction”. Giulia Caminito assimila i frammenti di tante vite, il racconto degli anni in cui è cresciuta, e prova a farne una narrazione, così come Antonia coi detriti e i materiali di scarto prova a fare una vita.

Per le lettrici e i lettori rassicurati dalle diciture, si consiglia piuttosto di utilizzare quella di romanzo generazionale, perché quello che emerge è il ritratto intimo e spietato di una generazione, quella dei millennials, che superate le soglie dell’età adulta constata con amarezza che ad attenderla non c’è un mondo pieno di opportunità e futuro; nessun rettilineo verso il progresso inarrestabile, ma la rabbia per una rivalsa che sembra impossibile. C’è però una parabola formativa che si compie: quella di Giulia Caminito. Lo sguardo dell’autrice, come quello della protagonista, è una pellicola fotosensibile sulla quale si fissano immagini una sopra l’altra, in sovrimpressione. Da questo insieme di dettagli emerge una visione della letteratura fatta per accumulo, addizione, associazione. Ne risulta una voce particolarmente felice, perché coniuga la spontaneità e la ferocia di una esordiente con l’eleganza e la maturità di una scrittrice consumata.

mattia.venturi6@gmail.com

M. Venturi è italianista