Giulio Mozzi – Le ripetizioni

Lacerti di un amore insufficiente

di Danilo Bonora

Giulio Mozzi
Le ripetizioni
pp. 355, € 17,
Marsilio, Venezia 2021

L’autore ha dichiarato che al centro delle Ripetizioni ci sono relazioni tra i personaggi caratterizzate da “amore insufficiente, e decaduto in legame di dipendenza/dominio”. È indubbio che Giulio Mozzi, autore finora soprattutto di racconti, abbia voluto intanto stabilire una buona relazione, con un minimo di architettura, tra le disiecta membra di lavori puntigliosi sopra un’ossessione, acefali o adespoti o rimasti a metà, e di abbozzi di maschere ancora in cerca di una coerenza e di un regista. Ne è uscito un romanzo assemblato con molte tessere tematiche, rimescolate a riprodurre un allucinante piétiner sur place senza scampo: nella vita non c’è sviluppo, ben che vada solo un rallentamento della tendenza dei nostri atomi a ridisporsi in un equilibrio uniforme. La forza elettronucleare debole e l’elettromagnetismo si fanno gli affari loro e non sono sensibili alle nostre moral suasions; è già tanto riuscire a mettere in scena decorosamente quello che ci ha fulminati nell’imprinting natale: padri troppo amati, fanciulle stilnovistiche morte giovanissime, fototessere di quando si era piccini e innocenti, fantasmi delle case di una volta, ora seppellite sotto i parcheggi degli outlet. Il romanzo non a caso è introdotto dalla riproduzione di un quadro di Claudio Laudani, Discorso attorno a un sentimento nascente; qualcosa come un feto o un cefalopode si staglia su uno sfondo scuro e viene alla luce: niente di più di una natività profana inabissata nel pozzo della zoé, la mera sopravvivenza animale. In una società ordinata nella quale bisogna raggiungere una posizione, farsi una famiglia, produrre e riprodurci, fare sesso eccetera, il sapiens istruito e agghindato si gratta ancora la testa davanti a troppe iscrizioni in Lineare A.

Mario, il protagonista delle Ripetizioni, è l’uomo medio sensuale della narrativa novecentesca, normalmente pavido, conformista e apolitico, avviluppato nella filter bubble della vita molto molto privata, quella deprecata due secoli fa in pagine famose di Tocqueville, ultimo rifugio di cloni omologati, intenti solo a procurarsi piaceri piccoli e volgari, estranei al destino di tutti gli altri, che vivono per se stessi e, “se hanno ancora una famiglia, si può dire che non abbiano più patria”. Il passo ulteriore dell’oggi di Mario, editor e scrittore padovano (ma lo vediamo buttar giù solo qualche appunto sul bloc notes, magari per concludere che non sa cosa dire), è che anche la famiglia si è rivelata un adempimento insensato e tartufesco, e quindi sembra ineluttabile chiudere il libro con un atroce infanticidio. La storia va avanti e indietro per un trentennio senza troppi mutamenti e si avvolge attorno a pochi temi, tra i quali dominano il sesso pervertito e le relazioni a triplo fondo con le donne.

Aggirandoci senza l’azzurro del cielo per appartamenti angusti come tane, scarsi metri quadri calpestabili, vicoli, camminando poco o niente, col muso per terra o ad alzo zero come i cani, scopriamo che Mario sta molte ore in treno con un libro in mano, leggendo spesso (per dovere) ma non ricordando quasi niente, commuovendosi magari per Il grande raccordo di Marco Lodoli e chiedendosi, come il Metastasio di Sogni e favole io fingo, perché emozionarsi per delle storie inventate e rimanere indifferente ai sentimenti veri: gran bella domanda, sulla quale si sono lambiccati fior di filosofi e critici, a cominciare da Hegel e Schiller, per citare i primi che vengono in mente. Le dramatis personae sul palcoscenico sono gli uomini e le donne finiti nella piccola rete del protagonista: il Gas (Grande Artista Sconosciuto), pittore senza talento, capace però di indovinare un dipinto che raffigura con efficacia la nostra nascita tenebrosa; Bianca, ragazza dura e schizoide, da cui Mario crede di avere avuto una figlia, Agnese; Viola, una promessa sposa ideale, morbida, conventional e cedevole, che però nasconde abiette parafilie e una drammaturgia incestuosa col padre, l’unico uomo amato in vita sua e vero “paradiso” in terra (a proposito di imprinting); il giovane Santiago, criminale, metrosexual e Dom di Mario nei giochi sadomasochistici sempre più outrés man mano ci si addentra nel piccolo inferno di un uomo alle prese con estenuanti conversari che non portano a nulla, con radici fragilissime, con la contumacia di un senso purchessia del suo vivere e madeleines ridicole e allucinatorie: invece del biancospino di Combray ripesca nella mémoire involontaire il profumo di un cespuglio di bosso, mai esistito nella sua San Daniele del Friuli. Quella di Mario, piuttosto, è una “memoria di crolli, abbattimenti, demolizioni, ricostruzioni”, e lo capisce al ristorante proprio mentre Viola attende una replica alla sua proposta di fare un bambino insieme.

Il protagonista-non agonista, arrendevole e beneducato – come molti di noi – sente di essere stato espropriato di una vera agency, ed è visitato spesso dagli arzigogoli delle domande fondamentali, le mortal questions dei pensatori. Invece di concludere, come George G. Simpson, che tutti i tentativi di rispondere a quelle domande prima del 1859 di Darwin sono inutili e che otterremmo migliori risultati ignorandoli completamente, fa di necessità virtù, rovescia come un guanto l’assenza di élan e la usa come una sorta di leva, abbracciando la dialettica del sadomasochismo e deferendola anche ad altri personaggi. Viola si trasforma nottetempo in un’apprezzata e ben pagata vittima di bondage: bendata e legata, aspetta che maschi sconosciuti la sevizino, eccitata e col cuore in gola. Dei soldi che le danno non sa che farsene: “un giorno li offrirà all’avvocato, tutti insieme, perché l’avvocato la uccida”. Nabokov raccomandava in sede critica di evitare i messaggi alla moda, di scansare le “chiavi di lettura” e soprattutto “non tirare in ballo Freud”. Però qui siamo trascinati per la giacchetta, perché sadismo, masochismo e perversioni rivestono un’importanza notevole nel romanzo, e suggeriscono che il Freud estremo della pulsione di morte c’entri qualcosa, c’entrino il narcisismo primario e il “godere”, ultimo dio che non fugge i sepolcri e precipita nell’aspirazione universale di tutti gli esseri viventi, quella di ritornare alla quiete del mondo inorganico e alla couche della Mater Matuta, come confessa a se stesso il protagonista trovandosi a sorpresa l’adorato aguzzino Santiago seduto a fianco in treno: “sente il cuore riempirsi del sentimento che gli suscita a volte Santiago, e che è una sorta di felicità, un desiderio di abbandono; poi pensa che Santiago vorrà punirlo… e in un attimo il desiderio della futura punizione diventa forte, fortissimo, e le immaginazioni della futura punizione riempiono la mente di Mario”.

Ma c’è dell’altro; il romanzo rappresenta anche un trattatello allegorico-didattico (solo infernale) nel quale il personaggio-autore, oltre a trasvalutare la gerarchia dei vizi, assegna ad alcuni individui di contorno il compito di simbolizzare generazioni che un po’ di agency l’hanno maneggiata e un punteruolo nel reale indecifrabile e impronunciabile l’hanno piantato. È questo forse il senso della comparsa, all’apparenza off topic, del Terrorista Internazionale (Franco Freda), del Capufficio sindacalista con un background chiacchierato (Lorenzon, la talpa di Piazza Fontana), di un ex politico di estrema sinistra, col quale Mario fa la presentazione di un libro (cogliendo la sua estraneità di boomer a un pubblico di ex militanti di tempi lontani e bellicosi), addirittura di Luigi Cadorna, il generale che aveva calcolato con spietatezza omerica il numero di uomini sacrificabili per conquistare un nido di mitragliatrice (“qualcuno giungerà”). Temerari e fuorilegge, avevano in dote quella indifferenza agli onerosi turbamenti etici divenuta un obiettivo asintotico nella nostra epoca della suscettibilità e della cancel culture. E a proposito di Combray, Proust non era solo quello caruccio dei biancospini e della tante Léonie, ma anche chi sapeva riflettere sul male come condizione rara, straordinaria, vertiginosa, dov’è così riposante rifugiarsi, se si sa cogliere, come in tutti, vuoi quell’indifferenza alle sofferenze che è, comunque la si voglia chiamare, la forma terribile e permanente della crudeltà, vuoi “ce sentiment de vénération que nous vouons toujours à ceux qui exercent sans frein la puissance de nous faire du mal”.

bonoradanilo@gmail.com

D. Bonora è dottore di ricerca in italianistica presso le Università di Padova e Venezia