Giuseppe Lupo – Breve storia del mio silenzio

In principio tutto era verbo

di Gabriella Leone

Giuseppe Lupo
BREVE STORIA DEL MIO SILENZIO
pp. 208, € 16,
Marsilio, Venezia 2019

Fin dal titolo il libro di Giuseppe Lupo si afferma come un testo autobiografico, con quel “mio” che campeggia in copertina. E si tratta effettivamente di un’autobiografia dell’autore – anche se di tipo speciale, come avremo modo di chiarire nel discorso – che parte dall’improvvisa devastante perdita della parola da parte del bambino alla nascita della sorellina: “Le sue braccia stringono un’altra creatura, il mondo non appartiene più a me. Quel giorno…le parole si fanno nemiche e io inizio a provare il loro male, che è una specie di voragine di cui non si vede il fondo. La storia del mio silenzio incomincia così”. Perché comunicare, parlare, giocare con le parole e le letterine di un “gioco pedagogico inventato da studiosi americani” erano parte integrante, anzi la sostanza del processo di crescita e di formazione del bambino (“In principio tutto era verbo: poesie, quaderni, libri, banchi, lavagne e alunni in abiti di carta crespa. Poi sopraggiunse il silenzio”). Figlio di una coppia di maestri che operava ad Atella, tra le montagne del Subappennino,  sempre attenti ai processi di apprendimento degli scolari e alla formazione culturale della comunità in cui vivevano – il padre era stato l’animatore e l’instancabile organizzatore del Circolo La Torre, che “invitava intellettuali da Roma, Milano, Napoli, Bari” – il bambino cresce in un universo di libri, idee, letterati e poeti che attraversano la vita della sua famiglia. La prima parte del libro costituisce una gustosa rievocazione dei personaggi con cui entra in contatto, e che ricorda con gli occhi infantili  di allora, dal libraio di Potenza Vito Riviello a Tommaso Fiore e  Leonardo Sinisgalli (“ ‘si dice fosse venuto ad Atella, un giorno che appartiene alla mia preistoria”’), da Giuseppe Antonello Leone e la moglie Maria Padula al pedagogista non a caso milanese Ettore Gelpi (“il grande Gelpi… Lui sì che potrà dire cosa è capitato nella testa di nostro figlio”).

Già nella prima parte del libro, relativa all’infanzia e all’adolescenza, si affaccia il tema di Milano: prima nei racconti dei parenti emigrati lassù per lavoro – e di quei ritorni estivi per le ferie troviamo una gustosa ricostruzione – ; poi nel resoconto di un viaggio della famiglia – padre, madre e figlio, senza la sorellina ancora piccola, a casa con i nonni – in Alta Italia, come si esprimeva il padre, che “intendeva conoscere la realtà delle fabbriche, quella che, secondo i suoi calcoli, discendeva dall’Illuminismo lombardo”. Di qui, dall’eredità paterna, inizia la peculiare fascinazione del giovane Lupo per Milano. La città lombarda è l’altra parte del suo mondo, da un lato le montagne lucane, dall’altro la pianura padana, le sue acque e Milano, la città che diventa uno dei temi centrali del libro: la città dei vagabondaggi dello studente universitario, la città delle nebbie e delle acque, la città delle periferie industriali (Lambrate e Rescaldina), più che del suo elegante centro storico. Alla città industriale e illuminista si aggiunge l’industria moderna, altro tema centrale del mondo di Lupo (“Se Mattei non fosse morto…”, sospirava il padre), “un’industria che dava un sentimento di pulito, come il lino bianco della Bassetti”. La fascinazione per Milano va di pari passo con la fascinazione per i prodotti della nuova industria localizzata in Alta Italia, per il bambino Giuseppe: i detersivi con i loro profumi o l’acqua di colonia Victor, usata dal padre quando qualcosa di importante stava per accadere, pensava lui, come “l’arrivo di qualche intellettuale, la partecipazione a un convegno, una corsa in auto alla tipografia Ottaviano”. Il precipuo interesse del futuro professore e saggista per la letteratura industriale italiana e per la storia dell’industria italiana (si veda l’ultima raccolta di saggi Le fabbriche che costruirono l’Italia) ha radici profonde.

La storia autobiografica che il libro racconta ha un carattere speciale: tutto il processo di formazione del bambino e del giovane Lupo è scandita da precisi ricordi e riferimenti a letture, riviste, libri, a protagonisti della vita culturale coeva, che costituivano il pane quotidiano della sua vita famigliare: si va dall’Editrice La Scuola di Brescia (“ ‘Se cancelliamo Brescia dalle cartine, cancelliamo la pedagogia italiana’ ” proclamava mio padre”) che aveva stampato il primo libro di lettura e sussidiario delle elementari, nonché “Scuola Italiana Moderna”, la rivista di didattica che puntualmente arrivava in famiglia ogni quindici giorni; alla rivista “Rocca”, le cui posizioni ricordano al padre la mitizzata “epoca dei professorini”, quei La Pira e Dossetti che erano il suo riferimento religioso e politico. E che sono il sottofondo culturale a cui si richiama anche il giovane Lupo, quando andrà a studiare alla Cattolica di Milano e scoprirà sul libretto universitario la firma del rettore: Giuseppe Lazzati. “È uno dei professorini, pensai, ha fatto carriera”.

Si diceva del processo di formazione: l’interesse dell’autore è tutto rivolto agli aspetti intellettuali e letterari della sua formazione personale e al percorso universitario: gli ultimi capitoli sono un intarsio di riferimenti a libri che costituiscono quasi il canone della letteratura italiana del secondo dopoguerra e degli anni ottanta e novanta in particolare: da Levi di Cristo si è fermato a Eboli a Carlo Alianello di L’eredità della priora; da Slataper di Il mio Carso alla Lingua salvata di Elias Canetti all’onnipresente Sinisgalli. E poi il Vittorini di Il Sempione strizza l’occhio al Frejus, e Fulvio Tomizza che in una conferenza universitaria pronuncia una frase topica per il futuro scrittore: “Il compito di uno scrittore è testimoniare” aggiungendo “Testimoniare il tempo che non ha visto”; il Papini di Un uomo finito e il Meneghello di Libera nos a Malo. E ancora la letteratura americana che sottolinea il parallelismo che l’aspirante scrittore Lupo istituirà tra Milano e New York: Steinbeck, Faulkner, Caldwell, Hemingway…E quella sudamericana di García Márquez. A questo intarsio di riferimenti letterari si accompagnano i riferimenti alla musica dell’epoca e ai programmi televisivi che hanno nutrito la generazione dell’autore: dai primi sceneggiati ai film trasmessi nei giorni di settembre della Fiera del Levante, cui assisteva gran parte della famiglia allargata dell’autore, all’Orlando Furioso di Luca Ronconi.

Delle vicende personali dell’autore giovane e adulto si ritrovano soltanto pochi cenni: il matrimonio con Annalisa, la nascita delle due figlie. Degli amici soltanto le tracce del suo mentore Raffaele Crovi e del suo editore Cesare De Michelis, a cui viene dedicato un commosso capitolo finale. Invece c’è una continuità, anche se metaforica, tra il silenzio dell’infanzia e il silenzio degli anni milanesi: quest’ultimo è il silenzio di colui che non ha ancora trovato una sua lingua, che la cerca e non può che tacere. È il silenzio del giovane scrittore che si affanna per trovare la sua strada, in primo luogo su cosa e come scrivere e sfuggire al fantasma del fallimento (cui dà il nome improbabile ma spiritoso di Quasimodo); poi su come trovare la strada per la pubblicazione.  All’aspirante scrittore sarà proprio il grande editore Cesare De Michelis a dare il suggerimento decisivo: “Devi trovarti un padrino” gli dice. Alla ricerca del padrino è dedicato il penultimo capitolo del libro, impreziosito da aneddoti sulla sua peregrinazione tra scrittori e editori: alla fine sarà Raffaele Crovi a seguirlo, spronarlo, criticarlo, aiutarlo: lo seguirà nel concepimento e nella preparazione del suo primo libro, il libro americano, che mette insieme New York, Milano e i monti dell’Appennino lucano e testimonia il tempo che lo scrittore “non ha visto”.

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G. Leone è insegnante