Graham Greene e la ferma opposizione contro tutti i potenti del mondo

Antieroi impastati di nascosta dignità

di Paolo Bertinetti

In occasione del conferimento del Premio Shakespeare attribuitogli dall’Università di Amburgo nel 1969, Greene affermò che il dovere dello scrittore nei confronti della società è quello di essere “un granello di sabbia negli ingranaggi dello stato”. Quel dovere lui lo ha svolto egregiamente.

Dai romanzi di Greene, la cui vita ha attraversato tutto il secolo breve (era nato nel 1904 ed è morto nel 1991) emerge la cronaca del Novecento. La cronaca nel senso alto del termine, come possiamo dirlo di Dickens o di Balzac. I romanzi che scrisse prima dello scoppio della seconda guerra mondiale hanno al centro l’Inghilterra (e qualche angolo d’Europa): il mondo di allora era eurocentrico e l’Inghilterra era ancora il vertice di un impero. Parlando di casa propria e dintorni Greene di fatto parlava di tutto il mondo a lui contemporaneo. Per la verità uno dei suoi romanzi più famosi e più belli, uscito nel 1940, Il potere e la gloria, spostava radicalmente il suo ambito di attenzione e di cronaca sul Messico di Lázaro Cárdenas. Ma gli interessava non tanto il Messico “rivoluzionario”, quanto proporre una riflessione sul come una rivoluzione fatta nel nome della libertà portasse a uno stato che le libertà le negava, in particolare quella di culto.

Dopo la fine della guerra, con il tramonto del ruolo di grande potenza dell’Inghilterra e del ruolo primario dell’Europa, ora che le sorti del mondo erano affidate alle due superpotenze, gli Usa e l’Urss, e alle loro sfere di influenza, ora che tutto discendeva dal rapporto in cui si trovavano le singole realtà locali rispetto all’equilibrio sancito dalla bomba atomica e dalla guerra fredda, i romanzi di Greene si dispiegarono nei luoghi dove emergeva, a partire dalla necessità di non turbare tale equilibrio, il volto e la condizione della realtà politica contemporanea: nella città di Vienna dell’immediato dopoguerra, nei paesi dell’America latina “sotto tutela” degli Stati Uniti, nel Vietnam ancora colonia francese che lottava per l’indipendenza, nel Sudafrica dell’apartheid forte della complicità dell’Occidente. Per quelli che sono nati nel dopoguerra Greene è stato il loro agente nel mondo che cambiava intorno a loro. Per le generazioni future Greene sarà quello che Dickens adesso è per noi. Con una differenza. Che mentre in Dickens, come faceva osservare George Orwell, la denuncia dell’ingiustizia era di natura etica (e non sociale), in Greene essa discende, oltre che da una posizione di ferma moralità, da una visione politica che rinfaccia ai potenti le loro responsabilità.

Nei suoi romanzi Greene seguiva il principio di fondo, il valore irrinunciabile, diceva, che deve guidare uno scrittore. Sin da giovanissimo, scrisse nel libro autobiografico Una specie di vita, in cuor suo sapeva già di essere “dalla parte delle vittime”; e quasi ottantenne dichiarava che combattere l’ingiustizia era il suo solo principio irrinunciabile. E, sperava, anche il punto centrale della sua opera (nonché della sua vita). Greene sta dalla parte degli oppressi e delle vittime; ma non per un potente contro un altro potente. Si schiera con la gente comune che dalle strategie dei potenti viene travolta e oppressa: i contadini vietnamiti, gli africani vittime dell’apartheid, i popoli latinoamericani schiacciati dalle dittature. In quei paesi, tutti pervasi da un’ingiustizia profonda, si muovono gli uomini comuni a cui Greene affida la vicenda del romanzo e i “cattivi” a cui essi si contrappongono. Il “fertile dubbio” per lui era la più importante delle qualità umane. Ebbene, i personaggi negativi sono quelli che non hanno dubbi, che si credono infallibili, che pretendono di essere depositari della verità e in nome di essa esercitano la violenza e la sopraffazione.

Il dubbio è invece familiare ai suoi antieroi. Ma questa sembra essere la loro sola virtù. Per il resto, sono uomini banalmente ordinari, impastati di debolezze e nascosta dignità, spesso deboli e incerti, sempre contraddittori, a partire dal prete ubriacone di Il potere e la gloria, passando per il Brown dei Commedianti, fino ai protagonisti dei romanzi più tardi. E tuttavia i mediocri antieroi greeniani hanno in sé fin dall’inizio (anche se non appare) quel nucleo di forza interiore che consentirà loro di andare al di là della loro mediocrità. Ciò che lo farà emergere è la situazione estrema in cui vengono a trovarsi, quella in cui la scelta investe il senso della loro vita. Anche Conrad, il primo riferimento romanzesco di Greene (a cui con forza e con sforzo dovette sottrarsi per trovare la sua strada narrativa), collocava i suoi personaggi in una situazione estrema; poi, come se fosse il Dio della Bibbia, se essi non facevano la cosa giusta (e doverosa) li condannava a morire. Greene, invece, faceva sì che, nell’estremità della situazione in cui erano finiti, i suoi personaggi trovassero dentro di sé quel fondo di dignità che neppure sapevano di avere, quella capacità di riscatto che riusciva a essere più forte delle loro paure, quella disponibilità al sacrificio di sé che non discende dal coraggio ma dalla “rassegnazione” con cui compivano quella che sentivano essere la cosa giusta da fare per potersi sentire esseri umani degni di questo nome.

Vi è in Greene la consapevolezza, che spesso lo ha fatto paragonare a Bernanos, dell’ineluttabilità della presenza di Dio nell’uomo. Sia che l’uomo lo accolga o lo ripudi. Basilare è per lui la convinzione dell’infinità della misericordia divina, che nessuno, neppure la chiesa, può conoscere. Essa – dice Padre Rank alla fine del Nocciolo della questione – conosce tutte le regole, ma non ciò che avviene nel cuore dell’uomo. Solo Dio può leggervi, e perdonare: ed è questo il mistero che per Greene può salvarci dalla disperazione. Ma non per questo è lecito definirlo uno “scrittore cattolico”: Greene ha sempre rifiutato di considerarsi e di essere considerato come tale. Il suo intento è stato quello di recuperare una dimensione letteraria che, come scrisse in un illuminante saggio, dopo Henry James il romanzo inglese non aveva più saputo ritrovare: una dimensione fortemente morale e religiosa che potesse dare senso e spessore a eventi e personaggi.

Questi sono il carattere e i contenuti delle storie che Greene racconta; resta da dire come le racconta. Due sono gli aspetti decisivi della sua scrittura. Sul piano della tecnica narrativa Greene, estraneo alle posizione moderniste (nei confronti di Virginia Woolf, ad esempio, espresse un giudizio tutto sommato negativo; e sull’Ulisse di Joyce non volle pronunciarsi mai), fece tesoro delle forme espressive tipiche della modernità, il giallo e il cinema. A differenza di quegli scrittori che, come in un quadro, ritraggono staticamente una scena, si può dire che Greene, per sua stessa ammissione, imparò a descriverla come se si trovasse dietro una macchina da presa, seguendo i personaggi e il loro movimento, scorrendo con lo sguardo sul paesaggio o sull’ambiente dell’azione. Il cinema insegnò a Greene quello che, secondo lui, aveva insegnato a Eric Ambler: la velocità, la chiarezza, il gesto rivelatore. Gli mostrò l’efficacia delle vere e proprie carrellate con cui lo sguardo del narratore entra in una stanza o negli scompartimenti di un treno; la forza rappresentativa del primo piano, dell’indugio sul volto dei personaggi; e gli insegnò come la tecnica del montaggio potesse essere trasferita nella scrittura del racconto.

E poi, oltre al cinema, il giallo, il genere che per statuto aggancia l’attenzione del lettore con l’amo della suspense, il genere che negli anni trenta conosce in Inghilterra la sua età dell’oro, il genere in cui trionfava Agatha Christie, il cui romanzo Assassinio sull’Orient Express fu pubblicato nel 1934. Il treno per Istanbul di Graham Greene (il treno del titolo è un Orient Express) fu pubblicato nel 1932 (trad. dall’inglese di Alessandro Carrera, a cura di Domenico Scarpa, nota di Antonio Manzini, pp. 352, euro 14.00, Sellerio, Palermo 2020) Certo, in fondo è un giallo. Ma, come diceva André Gide, l’arte vive di costrizioni e muore di libertà: i paletti, le regole fisse, le “costrizioni” di un genere, il giallo, nel caso di Greene, possono essere la gabbia in cui l’arte si esprime liberamente. Il treno per Istanbul è un romanzo che fissa sulla pagina la scena europea alla vigilia della presa del potere di Hitler – e con i vari fascismi già tranquillamente insediati. È un’Europa che ha incominciato la sua marcia verso l’abisso. E in fondo già lo sa il dottor Czinner, uno dei viaggiatori di quel treno, un mite rivoluzionario che come Greene sta dalla parte dei poveri e degli oppressi; e che pagherà con la vita il suo sogno di libertà. Il viaggio verso Istanbul, come scrive Antonio Manzini nella sua bella Introduzione, “pare il canto del cigno di un’epoca e quella di Greene, scrittore assoluto, genio puro della narrazione, è una premonizione della sconfitta di un intero continente, un’intera umanità”.

Ancora una caratteristica di carattere generale, seppure non del tutto perfezionata nel Treno per Istanbul, merita di essere sottolineata a proposito dello “stile”, del genere di scrittura elaborato da Greene. La sua è una prosa che risulta così caratteristica da avere suggerito la definizione di Greeneland per indicare l’atmosfera evocata nei suoi romanzi. Il “segreto” che la sottende sta nel proporre immagini di grande qualità evocatrice, quasi nascoste nel fluire della frase, che nascono dall’accostamento di termini, attributi, concetti, inaspettatamente associati allo stesso oggetto. Non c’è nessun mutamento di registro linguistico, nessun compiacimento di letterarietà, ma tra le parole piane, o addirittura dimesse, del racconto fa capolino l’invenzione sottile che, affiancandole, le impreziosisce senza darlo a vedere. In parte “l’effetto Greene” deriva dall’aggettivazione, dall’aggettivo (o l’attributo) che dà uno speciale colore, una sfumatura particolare, al sostantivo a cui si riferisce. Nei territori di Greeneland gli aggettivi sono creatori di realtà. Della realtà romanzesca. Il cui correlativo oggettivo, per Greene, era la realtà storica con le sue infamie.

paolo.bertinetti@unito.it

P. Bertinetti è professore emerito di letteratura inglese all’Università di Torino