Huysmans, Houellebecq: un confronto

La persistenza del disgusto

di Massimiliano Catoni

Vite di coppia (En ménage) (ed. orig. 1881, trad. dal francese di Filippo D’Angelo, pp. 247, € 18, Prehistorica, Valeggio sul Mincio VR 2022), se collocato in un quadro d’insieme che includa Alla deriva (À vau-l’eau, 1882) e A ritroso (À rebours, 1884), dà conto in modo inequivocabile delle ragioni che indicarono a Joris-Karl Huysmans la via della fede. Così si espresse, icasticamente, Jules Amédée Barbey D’Aurevilly, commentando l’uscita di A ritroso: “Dopo un libro tale non resta altro all’autore che scegliere tra la canna di una pistola e i piedi della croce”.

Gli esordi furono nell’ambito del gruppo naturalista che si raccolse attorno a Émile Zola, ma, com’è noto, Huysmans non aderì mai fino in fondo alle argomentazioni scientifiche che disegnarono la rotta seguita dal suo mentore. Zola, che s’incaricò di dare voce a una generazione di giovani scrittori ancora poco conosciuti, si sentiva formidabilmente avvinto dal senso della sua missione d’interprete di un’epoca, compito che gli richiese uno sforzo altrettanto titanico di quello che animò l’ingegno di Balzac. Huysmans diffidava di tali ambizioni, non meno di quanto diffidasse della capacità dell’arte di mettersi al servizio della storia. D’altro canto, non sentiva alcuna attrazione per il secolo in cui gli era toccato vivere. Non c’è pagina dei suoi romanzi che non comunichi un senso di sconforto e vacuità. Se Zola si volge alla sua epoca con le braccia tese, pronto a saccheggiarla con l’entusiasmo incredulo del pioniere (ne sono testimoni l’ampiezza della sua visione e il nerbo della scrittura), Huysmans, più riottoso e nevrotico, e fatalmente più ironico, non mira che a investirla del proprio disgusto, ansioso di ritrarsi in un cantuccio che lo preservi dallo squallore e dalla volgarità che vede attecchire ovunque. Poco importa che si tratti dell’inespugnabile dimora in cui si confinerà des Esseintes in A ritroso, o del monastero che accoglierà Durtal. La narrativa si nutre della vita. Ma se la vita viene percepita come un piatto nauseabondo, di cosa si potrà mai scrivere?

Disse di lui Paul Valéry: “Era il più nervoso degli uomini, capace di antipatie invincibili, immediato e atroce nei giudizi”. Curioso come questo epitaffio suoni meno lusinghiero di quanto non immaginasse l’autore del ritratto. Huysmans era un borghese che detestava la società borghese e avvertiva come insostenibile per se stesso una prospettiva di vita borghese. Sposarsi, avere figli, realizzarsi in una professione. Non era certo meno feroce di Gustave Flaubert nella sua avversione al filisteismo borghese, ma a differenza di Flaubert non poteva contare su un patrimonio di famiglia che lo avrebbe messo al sicuro da qualunque necessità, consentendogli di dedicarsi unicamente alla scrittura. A Huysmans non era permesso vivere come un artista; di qui l’impiego al ministero che scandì la sua esistenza dai diciotto ai cinquant’anni, fino alla pensione.

André e Cyprien, gli artisti velleitari di Vite di coppia, durante le estenuanti passeggiate senza meta per le strade di Parigi saldano in un comune destino le loro parabole recriminando sulle reciproche condizioni di partenza. “Qui c’è tutta la mia giovinezza” rimugina André, volgendo lo sguardo con disprezzo al Luxembourg, “una giovinezza di umiliazioni e privazioni […] con una madre vedova e senza un soldo […] Nei giorni in cui uscivamo dal pensionato i compagni ricchi mi tenevano a distanza, perché non avevo come loro la cravatta azzurra e il colletto dritto”.

Nel successivo romanzo, Alla deriva, Jean Folantin, burocrate soverchiato dal flusso inesausto della vita impiegatizia (il più prossimo tra gli alter ego di Huysmans, che non a caso gli conferì come equipaggiamento una sensibilità esacerbata), non fa che lamentarsi di essere nato “in condizioni disastrose”. A Folantin, peraltro, non verrà neanche concessa la consolazione del cameratismo. “Ebbe qualche compagno, qualche amico, poi venne il momento in cui gli uni lasciarono Parigi e gli altri si sposarono […] A poco a poco si abituò a vivere solo”. Non c’è aspetto dell’esistenza che in Vite di coppia e Alla deriva non venga volto da Huysmans in un doppione grottesco. La vita sentimentale si riduce a una pantomima. L’unico soddisfacente accomodamento con le donne sembra essere rappresentato dalla conquista di quelle comodità borghesi che il celibato preclude. “Avere il conforto del matrimonio ma senza la moglie” è l’auspicio del misogino Cyprien.

Persino l’arte viene restituita sotto forma di ineffabile caricatura. “Alla fine” – argomenta lo stesso Cyprien – “il concubinaggio e il matrimonio sono uguali, perché ci hanno sbarazzato entrambi delle nostre preoccupazioni artistiche […]. Niente più talento, e tanta salute, un sogno!”.

Scrive Pierre Jourde: Huysmans è “lo scrittore del disgusto […] dà la caccia alle meschinerie, si affligge con voluttà […] rispetto al metro dell’angoscia metafisica, dell’assenza di Dio, del sentimento di alienazione dell’uomo dell’era industriale, i suoi personaggi sembrano avere la vista un po’ troppo bassa”. Incline al sogno baudelairiano di un patrimonio illimitato cui attingere per garantirsi un’esistenza singolare – investita di senso in quanto rara e squisita –, negli stessi anni in cui annaspava dietro ad André, Cyprien e Folantin, Huysmans concepì la sua creatura più bizzarra, per certi versi raccapricciante: des Esseintes, l’ennesima incarnazione del celibe nauseato dalla vita. Rispetto ai suoi predecessori, des Esseintes è un aristocratico dandy che impiega il tempo alla ricerca di lussuose suppellettili con le quali arredare la dimora di campagna che ha appena acquistato. Ovvero un mausoleo al cui interno, in un vertiginoso processo di rarefazione, la sua vita si assottiglierà giorno dopo giorno nel tedio e nella contemplazione della propria inutilità, finendo per somigliare a uno dei tanti oggetti che lo circondano.

In una lettera a Théodore Hannon, Huysmans chiarì che il suo romanzo si fondava su un’idea perversa di raffinamento: un “raffinamento estenuato di ogni cosa”, letteratura, arte, sesso, fiori, profumi, mobilia. Come se l’esistenza potesse risultare potabile solo attraverso questo meticoloso lavoro di distillazione della realtà.

La religione del bello non offrì a Huysmans alcuna forma di riscatto dalle “prospettive infinite di turpitudine” che scorgeva davanti a sé. Circa cinquant’anni più tardi Sartre sublimerà la nausea che gli suscitano gli aspetti più minuti della realtà ricorrendo all’idea di “contingenza”: di fronte alla gratuità dell’esistere Roquentin, come l’antenato Folantin, si disperde passivamente lungo i rivoli della sua scialba quotidianità: cene solitarie a base di cibo cattivo, sesso praticato come forma di igiene, rancori antiborghesi. Sartre pretenderà di uscirne investendo le sue energie nell’impegno civile; Huysmans tenterà di alleviare lo sconforto attraverso la fede. Da questo punto di vista, Durtal – il protagonista di Laggiù (Là bas, 1891) e dei tre romanzi “liturgici” Sulla strada (En route, 1895), La cattedrale (La cathédrale, 1898), L’oblato (L’oblat, 1903) – rappresenta l’ultima metamorfosi del celibe inquieto. Alla base della sua visione estetizzante della religione ritroviamo del resto le stesse ubbie che lo avevano ispirato in passato. Nella Prefazione scritta vent’anni dopo per la seconda edizione del suo libro più celebre Huysmans riconoscerà in A ritroso “l’avvio della mia opera cattolica, che vi si trova, tutta intera, in germe”. Dice bene Michel Houellebecq: farsi oblato, in fondo, non gli era costato troppi sacrifici: poteva continuare a vivere fuori del monastero munito delle sue scorte di tabacco e circondato dai libri della sua biblioteca, per di più servito da una domestica personale che gli preparava quei piatti genuini agognati dai protagonisti dei suoi romanzi. In altre parole, poteva sentirsi affrancato “dalla spossante e triste successione dei piccoli fastidi della vita quotidiana […] in monastero, almeno, si aveva la garanzia di vitto e alloggio”.

In Sottomissione (Soumission, 2015) – l’apologo in cui Houellebecq immagina, con moralistico compiacimento, di vedere la Francia governata da un partito musulmano che riedifichi sulle macerie dell’estenuata civiltà occidentale un ordine politico contrario all’individualismo liberale – François, l’alter ego di Houellebecq, accademico e studioso di lungo corso di Huysmans, incarna la stessa indolenza rassegnata e l’odio generico per l’umanità che vediamo evocati in Folantin, la stessa incapacità di accondiscendere a un modello di vita borghese. Anche François, come l’autore a cui si è consacrato, vorrebbe sentirsi affrancato dalla fatica di esistere. Del resto, la fede sincera – ma spogliata di misticismo – che Huysmans esprime negli ultimi romanzi gli appare, pur dalla sua prospettiva di ateo, un approdo accettabile. “Gli spazi infiniti che spaventavano Pascal e sprofondavano Newton e Kant nello stupore e nel rispetto, lui non li aveva neppure intravisti […] era un convertito, certo, ma non come Péguy o Claudel”. Nessuna tentazione metafisica. Tantomeno il bisogno di sentire la propria vita giustificata. Sopravvive in Huysmans quel tanto di ironia che il passo di Sulla strada scelto da Houellebecq come epigrafe al suo apologo esprime mirabilmente: “Sono ossessionato dal cattolicesimo […] ma da questo a condurre un’esistenza diversa ce ne passa!”. Nelle ultime battute del suo libro Houellebecq cede il passo alla conversione – sottomissione – di François, il quale, proprio come Durtal, si appresta a congedarsi dalla sua vita di prima accettando di essere sollevato dal peso del libero arbitrio, estromesso una volta per tutte dalla battaglia per la vita. L’idea che non avrà più relazioni ma solo rapporti con ragazze addomesticate e pronte ad amarlo in ogni caso, nella fattispecie le studentesse (“belle, velate, timide”) dell’università in cui insegna, fa balenare sullo sfondo l’auspicio baudelairiano di avere accanto una donna “casa-famiglia”, l’unica, a parte “le ragazze”, “in grado di soddisfare un letterato”.

Per ragioni diverse, ma entrambi in malafede, Huysmans e Houellebecq commettono lo stesso errore di chi finisce per capovolgere il nesso di causa ed effetto storicizzando il proprio disgusto e la noia di esistere. Non fa differenza che si parli della società di fine Ottocento o di quelle che Houellebecq, con troppa impazienza, definisce le “nostre società ancora occidentali e socialdemocratiche”. Forse che se fossero vissuti in epoche diverse, le cose sarebbe andate diversamente per loro? L’istinto vitale avrebbe prevalso sull’istinto di morte?

Evidentemente per Houellebecq sì, tanto che in Sottomissione – romanzo distopico, per l’appunto – si spinge a concepire in un futuro assai prossimo una società fondata su presupposti radicalmente diversi. A suo avviso questo nuovo ordine dovrebbe coincidere (non solo per lui, ma per noi tutti), con una seconda opportunità. Sottotraccia, tuttavia, più che speranza di palingenesi (come vorrebbe Emmanuel Carrère nella sua recensione apparsa sul “Corriere della Sera”) si avverte il desiderio di veder l’umanità – afflitta dai suoi bisogni – finalmente estinta.

massi.catoni@gmail.com

M. Catoni insegna letteratura francese all’Università Tor Vergata di Roma