Igor Esposito – La memoria gatta

Guizzi pasoliniani

di Anna Chiarloni

Igor Esposito
La memoria gatta
prefaz. di Elio Pecora, con una lettera di Laura Betti,
pp. 80, € 10,
Magmata, Napoli 2019

Noto autore di teatro, nonché finalista alla XXX edizione del Premio Calvino, Igor Esposito pubblica il distillato di un’attività poetica che da sempre lo ha accompagnato nel tempo. La silloge, testimone di un’attitudine polifonica, è suddivisa in tre sezioni. La memoria gatta  apre con tre testi di  passo breve e  rapido che può far pensare all’haiku ma i fotogrammi di Esposito non sono mera registrazione di un idillio evanescente, al contrario si avverte immediato uno scavo nel profondo: una costante, questa, dell’intera raccolta. Al centro un io lirico che indaga il linguaggio del corpo, reso come fuga nel buio, morso randagio, caravaggesca vampa di passione, ma capace anche di mettere in scena un’affettuosa genealogia familiare, come nei versi dedicati ai genitori. Colpisce in Dando calci quella grafica statuaria, a suo modo solenne,  riservata alla figura materna, quasi una lapide a esaltare la centralità della matrice originaria pur nella dichiarata, solitaria autonomia del figlio, maschio e adolescente: vincolo e distacco nell’intreccio dell’istanza autobiografica, tra cura domestica e partite di pallone sul “cemento metropolitano”. In modo analogo,  al padre “famelico nel tempo della pesca” si contrappone una sorta di distanza nell’affratellarsi dell’io con la preda, l’ignara “bestia marina”  che “spera la fuga  nel mare sorrentino” (A mio padre). E tuttavia il testo si chiude in  guisa di abbraccio filiale reiterando l’incipit – “Tu sai quello che ancora io non so” – un  riconoscimento della concretezza del vissuto paterno rispetto alla polvere di parole, al vacuo  suono  della realtà che ci circonda. Nella guizzante poesia eponima – La memoria gatta – Esposito accoppia il  percorso anamnestico al fremito  del felino  “che piscia e salta / sull’immonda immondizia / del nuovo o balenante mondo”.  Si avverte fin dal titolo l’attenzione (pasoliniana) per il connotato  oscuro dell’esistenza che talora si compenetra con una ricerca ritmica, come nella Desdemona dedicata a Laura Betti, o nella rima cullante di Non importa che tu vada. Ma con questo titolo siamo ormai calati nell’intensa sezione di mezzo, Desiderio e memoria. Venti testi senza titolo s’incatenano nella  vertigine dei sensi attorno alla donna amata, dando voce all’attesa di una virilità imperativa nell’incontro con il “feroce germoglio / o desiderio o lebbra”, con un corpo femminile disegnato nel respiro di un Courbet: “Luce d’alba carnale, / brulla terra d’arare / era il tuo corpo. / Ora è cammino, / disvelato abisso / del giorno. / Dove ogni giorno / è origine e caos”. Sono versi che risuonano di una felicità creaturale oggi forse concessa solo alla poesia, folate di vento in  un campo lessicale da cui affiorano bagliori di un’arcaica luce pagana, dove la parola “come un vagito arpionato di bestia” evoca  rituali ancestrali di esistenze notturne, di corpi  accerchiati dalla violenza del desiderio. Più avanti si percepiscono ombre di rinuncia nel rigurgito  del tempo, nel deragliare di membra in rovina. Si fa strada una cronologia intima che ancora si ritaglia un luminoso profilo femminile di suburbio, ne sillaba in dettaglio le tappe del solitario transito quotidiano, fino a immaginare un segreto amplesso, ma  onirico,  tra le quinte notturne di una regia tutta dettata dall’urgenza dell’Io: “Fai presto: apri la porta, / batti il corpo sul letto. / La notte cancella l’orma / del giorno. Tutto è pronto: / se chiudi gli occhi / io ti vengo in sogno”.

Due poemetti chiudono il libro, Le ceneri di Pasolini del 2000 e il Canto di Sibilla, scritto nel 2006 per l’attrice Licia Maglietta. Testi di denuncia civile, che riprendono con rinnovati accenti il disperato fremito pasoliniano, ma al tempo stesso  certificano la felice trasmigrazione di genere dei nostri anni: sono infatti versi  successivamente acquisiti dalla regia  di Francesco Saponaro, sia come materiale drammaturgico che come installazione sonora, una dinamica che testimonia la vitalità espressiva di questa  poesia.