Khaled Khalifa – Morire è un mestiere difficile

Arrestare un cadavere

di Mario Marchetti

Khaled Khalifa
Morire è un mestiere difficile
ed. orig. 2018, trad. dal siriano di Maria Avino,
pp. 197, € 17,
Bompiani, Milano 2019

Un libro che tutti oggi dovrebbero leggere. Non ci si farebbero più tante oziose domande sullo statuto dei migranti siriani e non solo (sono migranti economici o politici, rifugiati o profughi…?) e sul loro diritto a infrangere lo scudo della Ue. Ma veniamo al bellissimo romanzo di Khalifa, un page turner nonostante la sua dolente materia narrativa. Khalifa, lo ricordiamo, è siriano e vive coraggiosamente a Damasco. I suoi libri, che sono un potente atto d’accusa contro il regime di Bashar al-Assad, ma che sferzano anche, senza alcun compiacimento, quella che Samir Kassir ha definito “l’infelicità araba”, sono però pubblicati a Beirut, certo non per scelta dell’autore che di recente ha avuto una mano massacrata dalla manovalanza dei servizi segreti. Un atto simbolico, ma molto, molto corporeo. La vicenda narrata si svolge qualche anno dopo l’inizio della guerra civile siriana, che ha come suo atto di nascita le manifestazioni antigovernative del marzo 2011 nella cornice delle primavere arabe. Da allora – e non è finita – il mondo ha assistito, impotente e connivente, alla brutale distruzione fisica, etica, culturale di un intero paese in cui metà della popolazione, circa undici milioni di persone, è sfollata interna o rifugiata all’estero.

Riprendendo l’idea che era stata di Faulkner in Mentre morivo, un viaggio fortunoso di poveri bianchi ‒ siamo durante la depressione degli anni trenta nella mitica contea di Yoknapatawpha ‒ per portare una salma, quello della madre, nel suo luogo di sepoltura, Khalifa immagina un viaggio in minibus da Damasco a Annabiyya (a nord di Aleppo), attraverso la Siria martoriata, di tre fratelli per esaudire l’ultimo desiderio del padre di riposare nel villaggio natale accanto alla sorella Layla. Ma se in Faulkner il punto di vista era plurale, qui tutto è narrato nella prospettiva di Bulbul, il fratello più sensibile, una coscienza debole e incerta, esemplare proiezione dell’infelicità araba. Insieme a lui viaggiano il fratello maggiore Huseyn, un marginale dopo i sogni giovanili di donne e denaro facili, e la sorella Fatima, che accetta passivamente il ruolo femminile di obbediente sottomissione. Come in Faulkner, d’altra parte, nel corso del viaggio, grazie a un’intermittente rammemorazione, riemerge per frammenti il passato della famiglia e dei suoi membri, riemergono le ferite, i non detti, le ipocrisie, i conflitti che li hanno insieme uniti e separati.

L’humus della famiglia è sempre stata la menzogna da cui tutti sono inquinati. Nessuno si salva. Non si salva Bulbul, che preferisce vivere una non-vita – “la sua esistenza era uguale alla sua inesistenza” –, come un topo nella tana, evitando ogni rischio e compromissione in attesa di un’improbabile emigrazione in un paese del Nordeuropa. Non si salva il padre, critico del regime, ma prigioniero della retorica rivoluzionaria comune a tutta una generazione che rimpiange i fantastici anni Sessanta  – che in realtà tali non furono per gli arabi, basti pensare alla guerra dei sei giorni. E che soprattutto ha un’ombra nel suo passato: in gioventù non aiutò a fuggire la sorella Layla che pur di non accettare il matrimonio combinato, il giorno della cerimonia, maliosamente abbigliata, si darà fuoco col cherosene sulla terrazza di casa ruotando su stessa alla maniera dei dervisci. Ecco perché il padre desidera esserle sepolto accanto: per risarcimento, un inutile risarcimento fuori tempo.

L’abilità di Khalifa sta nel rappresentare la menzogna in cui è sempre vissuta la famiglia di Bulbul come speculare alla menzogna di un’intera società e di un regime, e non solo quello di Bashar al-Assad, ma quello instaurato fin dalle origini dal Ba’th: in un sistema basato sull’asservimento dei corpi e delle menti, in cui ogni cosa è diventata cella sotto l’ala di un onnipotente servizio di sicurezza, il famigerato mukhabaràt, non c’è spazio, nemmeno a livello privato, per rapporti e affetti autentici. L’atmosfera inquinata produce miasmi, che nel romanzo, molto matericamente, sono prodotti dal cadavere in disfacimento del padre nel corso di un viaggio di quattrocento chilometri che non sembra avere mai fine.

L’assurda impresa – forse pensata dai figli come un’occasione per salvarsi l’anima e riconciliarsi – si rivelerà un itinerario infernale, una via crucis in cui nulla viene risparmiato. Si passa, tra campi isteriliti e in mezzo a paesi rasi al suolo, da un checkpoint all’altro sempre sotto la minaccia della reclusione e della tortura. Ovunque ipocrisia, corruzione, violenza e insensata burocrazia (si arriva, a un certo punto ad “arrestare” il cadavere). È andato perso ogni senso morale, altra aberrante conseguenza della menzogna di sistema.  Nessun rispetto per la dignità, anzi appare risibile la dignità di un funerale per un corpo morto, laddove i cadaveri a migliaia finiscono nelle fosse comuni o divorati dagli animali selvatici. E in simile deriva non c’è differenza tra i diversi poteri che si spartiscono il territorio – lealisti, Hezbollah, jihādisti: non sono granché diversi dai cani randagi che si sono fatti il palato alla carne umana.

m.ugomarchetti@gmail.com

M. Marchetti è traduttore