La saga dei Barrøy. Intervista a Roy Jacobsen

Tipi pratici alla ricerca della salvezza

Intervista a Roy Jacobsen di Camilla Valletti

Acclamato scrittore in patria, la Norvegia, e a suo modo filosofo, Roy Jacobsen presenta in traduzione italiana il primo tomo della tetralogia ambientata nelle Isole Lofoten sullo scorcio degli anni venti (Gli invisibili, ed. orig. 2021, trad. dal norvegese di Maria Valeria D’Avino, pp. 288, € 18, Iperborea, Milano 2022). Con una scrittura personalissima che mai indulge nelle convenzioni letterarie della natura selvaggia, Jackbsen racconta la vita di alcuni membri di una famiglia, chiusa in un microcosmo di pura sussistenza. Eppure anche in ecosistemi così sigillati, l’anelito verso una prospettiva alternativa si fa sentire al punto da creare vere, silenziose, tragedie. In un luogo dove possedere una sedia significa quasi ricchezza, tutto si concentra nelle abilità artigianali e nel confronto diretto con una natura da sfruttare fino in fondo.

Lei è il narratore del cosidetto great class journey, ovvero ha raccontato il balzo in avanti della società norvegese che da una condizione preindustriale si è trovata a vivere in un orizzonte postindustriale. La trilogia è allora il tassello che mancava a questa lunga cronaca, dal momento che è ambientato in una sperduta isola delle Lofoten al principio degli anni venti?

Ho deciso di ambientare la mia storia al principio del XX secolo perché la nostra è una società sostanzialmente conservatrice. Mi interessava capire quanto di quello che sta alle nostre spalle sia rimasto come eredità ancestrale, anche se certi stili di vita sono stati del tutto oscurati da un diffuso benessere che ha investito le nostre città e le nostre campagne. Mia madre è cresciuta in un’isola come quella che ho raccontato nel mio romanzo. Durante la mia infanzia ho naturalmente ascoltato moltissime storie legate a questo ambiente dalla sua voce. In qualche modo, mia madre cercava di paragonare la nostra vita nei quartieri operai di Oslo, una vita comunque viziata, con la povertà e la lotta per l’esistenza immersa in una natura difficile e bellissima, qualificata dai ricordi della sua isola. Ogni estate poi mia sorella e io trascorrevamo le vacanze laggiù. E io, da bambino, ero molto affascinato da questo mondo così strano. Come mai la mamma viene da qui? Mi chiedevo. Sembrava qualcosa di simile all’età della pietra per noi bambini. La gente veniva dal mare, da un luogo misterioso. Tutto questo ha esercitato un fascino profondo per me. Quindi da bambino ero affascinato da tutto questo. Ho sentito molte storie. Dopo il liceo a Oslo, ho frequentato un anno di matematica all’università e poi mi sono trasferito sull’isola. Ho fatto il pescatore per undici anni, conosco bene ciò di cui scrivo.

Pochissimi personaggi immersi in una natura capace di offrire la mera sussistenza, oltre a un profondo senso di isolamento e identità. Come ha saputo coniugare due sentimenti così distanti?

Mi premeva soprattutto raccontare due elementi. Intanto la condizione della donna, immersa in una natura così terribile. Volevo che fosse un personaggio di sesso femminile a condurre il lettore lungo questa scoperta. In Norvegia la storia delle donne è sempre stata considerata marginale, mentre hanno avuto un ruolo fondamentale, non solo all’interno della famiglia, ma anche nello sviluppo industriale. E poi mi interessava andare alle origini dell’economia preindustriale. Da quelle isole, abbiamo esportato prodotti in tutta Europa a partire dal Medioevo, ma tutto questo denaro non è mai stato reinvestito nei luoghi di provenienza. Le isole sono rimaste essenzialmente ferme a uno stato di estrema arretratezza.

E così si è creato un movimento a doppia velocità: sempre più povere le popolazioni delle isole e sempre più ricche quelle della costa. Poveri e sempre più poveri loro mentre il paese, nel suo complesso, era sempre più ricco. Mi interessava indagare proprio dentro a questo paradosso. L’isolamento nasce innanzitutto dal fatto di essere isolati. Non c’era il telefono? Mi chiedono. No. Niente telefono. E non c’era nemmeno l’elettricità, il telegrafo, niente di niente. Quindi queste persone erano davvero molto isolate perché non potevano comunicare, ma naturalmente sapevano di far parte di un mondo più grande. Quindi, da un lato c’era la necessità urgente di gestire il piccolo ecosistema in cui si viveva, con l’obiettivo di lavorare a una macchina che consentisse la sopravvivenza. Dall’altro, c’era la curiosità e il desiderio di un mondo più grande. Qualche amico, qualche connessione poteva instillare psicologicamente la necessità di qualche cosa di imprevisto. La madre infatti è una donna divisa: se da una parte cerca di mantenere intatto il regime di vita per proteggerlo dall’esterno, dall’altra invece si sente trascinata dalla curiosità che sa essere potenzialmente pericolosa.

Nella prima generazione le donne fanno rigidamente lavori domestici e gli uomini vanno a pesca e raccolgono la torba. La seconda generazione, quella di Ingrid, sembra invece sparigliare le carte.

I ruoli sembrano molto definiti: le donne a rammendare le reti da pesca e a ripulire le piume di edredoni per fare i piumini e gli uomini per mare. Ma questa divisione così marcata, nella seconda generazione che racconto, appare molto più mobile. E infatti una donna assume il ruolo di padre e di madre, sono cose che capitano di necessità in società così chiuse, così recintate. Senza le donne, i pescatori non potrebbero andare in mare. Non potrebbero sopravvivere. E so che erano le donne a preparare il pesce che gli uomini usavano come esca. Così, quando gli uomini erano via, le donne dovevano rimanere a casa a prendersi cura dei bambini, degli animali e fare anche i loro lavori. Qualcosa di molto diverso da quello che avevo sperimentato nella mia infanzia, quando mia madre rimaneva a casa e mio padre era fuori a guadagnare. Paradossalmente le donne erano molto più integrate in quelle società chiuse rispetto alla comunità operaia nella quale sono cresciuto. Ingrid è figlia unica e femmina, il padre avrebbe preferito un maschio. È una donna forte e solitaria come una regina. Penso che sia una regina molto interessante perché è attraversata da infiniti contrasti interiori, dal bisogno continuo di risposte. Sempre alle prese con le sue responsabilità.

I critici hanno ammirato la sua prosa limpida, dai toni quasi biblici. Una scrittura poetica dal taglio severo che osserva momenti di introspezione senza scampo. Come nel passo in cui sono elencati i sogni di Hans Barrøy, il capo famiglia: una barca a motore, un’isola più grande e un’altra vita, e quelli di Maria, la moglie, altri bambini, un’isola più piccola e un’altra vita. A cui segue questa dichiarazione: “pentirsi di un sogno è il sentimento più distruttivo che si possa provare”. Hans e Maria che eredità lasciano alla figlia Ingrid?

Sì, c’è qualche cosa di biblico nei miei personaggi. Una Bibbia vissuta, usata, a cui ci si rivolge per trovare un conforto semplice, immediato. La Bibbia, per gente come questa che non era particolarmente religiosa, è un modo per aggrapparsi alla speranza in una tempestosa notte invernale. Ma la Bibbia era uno strumento. Era un conforto. Era qualcosa che, sapete, si aggrappa alla speranza. È come un’alternativa a ciò che stai vivendo, alla durezza della vita. Ma l’aspetto biblico della sua domanda, che si basa sui sogni dei due personaggi, credo sia in realtà il fulcro della storia: tutti sognano ciò di cui non sono contenti.

Ma in fondo, non sappiamo molto di ciò che sognano. Non è la realtà. È la macchina che ci fa andare avanti.

Lei è anche un autore per bambini, e questo si percepisce nel modo in cui descrive gli abitanti più piccoli dell’isola e gli animali. Lo scoglio del cavallo, l’isolotto del toro, lo scoglio del caprone, l’isolotto dell’ariete: sono toponimi che possiedono un quid di magico, nascondono insidie e grandi meraviglie agli occhi dei più piccoli come trasportare un cavallo su una barca per l’accoppiamento. Nell’isola tutto è sorprendente ma necessario. Quali sono i numi tutelari le sue fonti di ispirazione che cosa ispira il suo iperrealismo?

Bella domanda. Tutto, è in realtà la risposta, credo, per non limitare i miei strumenti. Voglio usare tutto, tutto quello che posso. Uso le persone che incontro e posso usare anche i miei desideri. Posso usare qualcosa del realismo magico, del realismo più sporco, del naturalismo e perché no?, possono essermi utili i fumetti, il cinema. Non importa. Mi piace sfruttare tutto, senza distinzioni, quando scrivo. Ho scritto molto sui bambini. I bambini sono molto importanti. Ho cinque nipoti e spesso resto seduto a guardarli studiare. É così che ho cominciato a scrivere di loro e per loro, individuando il confine tra l’essere innocenti e colpevoli.

Barbara, per esempio, oggi sarebbe etichettata come disabile perché non sa leggere e scrivere.

La sua famiglia ha cercato di sbarazzarsi di lei due o tre volte pensando che sarebbe stata un peso e invece sarà una delle rocce dell’isola, una delle donne più forti, la più forte di tutti. A quel tempo questo tipo di persone riusciva a integrarsi nel sistema, oggi si troverebbe chiusa in un istituto. Il sacerdote dell’isola, per fare un altro esempio, è un tipo pratico, deve esserlo. Sì, è pratico. Sa bene che i suoi “fedeli” non credono in Dio. Sono troppo delusi, hanno troppo sofferto ma non possono nemmeno lasciarsi andare. Se esista o meno un dio non è un problema loro, basta che ci sia qualcuno che, in caso, lo gestisca. Per questo il sacerdote è un personaggio a suo modo comico. E poi ci sono gli animali. Gli animali, in una società così chiusa, sono membri della famiglia. Le pecore, le anitre, sono elementi fondanti l’intero ciclo vitale della famiglia.