Le parole e le incrostazioni del tempo

di Alice Bonandini

Maurizio Bettini
Roma, città della parola

Oralità Memoria Diritto Religione Poesia
pp. 410, € 29,
Einaudi, Torino 2022

Giorgio Ieranò
Le parole della nostra storia

Perché il greco ci riguarda
pp. 320, € 17,
Marsilio, Venezia 2022

I libri di Maurizio Bettini e Giorgio Ieranò hanno qualcosa in comune: si occupano di parole fin dal titolo. La coincidenza non è casuale: lo studio delle culture classiche, infatti, ha sempre a che fare con la filologia, intesa in senso ampio come “amore per la parola”. In relazione alla letteratura e alla cultura, la parola acquisisce la funzione che ha per l’archeologo il reperto, divenendo il frammento intatto che consente la ricostruzione di un contesto irrimediabilmente perduto: come i reperti di scavo consentono di ricostruire il profilo di un insediamento da tempo sepolto, le parole, una volta ripulite delle incrostazioni del tempo, restituiscono forme di pensiero e paradigmi culturali oggi svaniti.

La direzione è quella tracciata nel 1969 dal Vocabolario delle istituzioni indoeuropee di Émile Benveniste, nel quale i vocaboli del lessico socio-economico, analizzati in una prospettiva storico-linguistica e comparatistica, forniscono le coordinate necessarie per ricreare il contesto culturale in cui furono utilizzati. La lingua diviene allora un vero e proprio oggetto culturale, che non si limita a definire la realtà, ma ne orienta la comprensione, in base a quella dialettica tra designazione e significazione che aveva affascinato già gli antichi (basti pensare alla querelle sorta tra gli studiosi di Alessandria d’Egitto e quelli di Pergamo in merito al rapporto tra significante e significato, che i primi volevano razionale e arbitrario, i secondi naturale e intrinseco). Ieranò e Bettini proseguono su questa strada secondo due prospettive diverse, che hanno però entrambe il pregio comune di smantellare tanti luoghi comuni sul mondo antico che, retoricamente ripetuti fino a divenire degli automatismi, rischiano sempre di condizionare la nostra comprensione, spingendoci verso attualizzazioni improprie o consolatorie idealizzazioni.

Giorgio Ieranò ripercorre la storia delle parole italiane che derivano dal greco, da “psiche” a “epidemia”, passando inevitabilmente per “filosofia” e “democrazia”, ma anche per “bomba” e “semaforo”. Lo scopo non è quello di celebrarne la sopravvivenza, ma di sottolineare come l’apparente continuità d’uso celi spesso una profonda trasformazione dei significati e del contesto di utilizzo: così, l’enthousiasmós era qualcosa di ben più perturbante (per usare un aggettivo caro a Ieranò) del nostro “entusiasmo”, visto che indicava la perdita di controllo di chi è posseduto da un dio; persona indicava in latino soltanto una vuota maschera, con una concretezza che solo massicce dosi di Pirandello rendono meno indigesta. L’evoluzione semantica di una parola, del resto, può marcare un paradigma culturale: “lavoro” deriva dal latino labor, “fatica”, ed esprime una concezione ben diversa da quella del suo omologo tedesco Beruf, “vocazione professionale” secondo la classica interpretazione di Max Weber. “Scuola”, al contrario, aveva in origine a che fare con il tempo libero (scholé): un’etimologia che agli studenti di oggi potrà forse far storcere il naso, almeno tanto quanto il fatto che il “glamour” è probabilmente associato, per via etimologica, alla “grammatica”.

Le parole, dunque, sono reperti che custodiscono e rendono possibile la conoscenza dell’antico, ma, al tempo stesso, sono entità dinamiche, che non smettono di trasformarsi e adattarsi a nuovi contesti. Come accade nel mondo dell’arte e dell’archeologia, non mancano nemmeno i falsi, magari d’autore: è il caso di “utopia”, che Tommaso Moro inventò per la sua società ideale, talmente perfetta da essere collocata in “un luogo che non c’è”, e di parole come “xenofobia” o “ecologia”, che oggi sono sulla bocca di tutti ma anticamente non vennero mai pronunciate. Persino Humphry Osmond e Aldous Huxley, quando diedero il via alla stagione psichedelica, lo fecero creando a partire dal greco una parola nuova che i greci non conoscevano, per quanto, durante i riti misterici, non è escluso che abbiano sperimentato sostanze dagli effetti non molto diversi da quelli dell’Lsd.

Se Il greco ci riguarda, come recita il sottotitolo, è quindi proprio perché non ci riguarda; perché, misurando la distanza da una cultura rispetto alla quale siamo “diversi ma non estranei”, definiamo meglio ciò che le parole significano per noi: “perché questi benedetti greci, nella loro storia millenaria, sono riusciti a essere tante cose diverse. E anche noi, forse, siamo spesso diversi da ciò che crediamo di essere”.

Bettini mette in luce che non sono solo i significati delle parole a essere cambiati, ma la funzione stessa della parola in quanto tale. In un contesto di prevalente oralità quale quello di Roma, il potere della parola parlata è capillare: le sono affidati la memoria collettiva e la tradizione identitaria (il mos maiorum, “legge non scritta” secondo Servio e Isodoro), ma anche la fruizione di una letteratura che non venne mai concepita per dei lettori, ma sempre per degli ascoltatori, al punto che il poeta Marziale, trovandosi lontano da Roma, scrisse: “mi mancano le orecchie della città”. L’oralità influenza la struttura stessa della società: Roma è una città senza scribi, ma dove il giudice, iudex, è letteralmente “colui che dice il diritto”, e dove esistono schiavi, come i monitores e i nomenclatores, che hanno lo specifico incarico di ricordare al padrone cosa dire o i nomi delle persone da salutare. Nell’affollatissimo pantheon degli dei minori di Roma, la parola ha persino le proprie divinità, come Fabulinus e Vaticanus, che presiedono alle prime lallazioni dei bambini – ovvero degli in-fantes, coloro che si distinguono proprio per il fatto di non saper parlare.

Se la prevalenza dell’oralità è caratteristica comune a molte civiltà del passato, Bettini pone l’attenzione su come Roma non sia, semplicemente, una “città della parola”, ma una città della parola efficace: una parola dotata di agency che viene espressa attraverso il verbo fari, “dire in modo autorevole e potente”. Questa capacità della parola di agire sulla realtà, modificandola, diviene chiara se si analizza la parola fabula, formata aggiungendo alla radice di fari un differenziale submorfemico, -bula, che in latino è sempre usato per indicare uno strumento che penetra in profondità nella materia e la trasforma, come la fibula si conficca nel tessuto determinandone la foggia, o la mandibula tritura il cibo: fabula è, quindi, ogni racconto che si insinua nelle rappresentazioni mentali di chi lo ascolta, influenzandole.

Tra i molti vocaboli che derivano dalla radice di fari, emblematico è quello che indica il destino: fatum, ‘ciò che è stato detto’. Se l’omologo greco moira indica la quantità di vita assegnata a ciascuno, “per i Romani, il destino è una parola”; e se in Grecia le Moire assegnano in dote a ciascuno una porzione di filo, a Roma le Parche annunciano il destino a parole, con un canto profetico.

Il concetto di parola efficace permette a Bettini di spiegare in modo convincente uno dei termini più complessi e fraintesi del latino, fas, talmente peculiare della cultura romana da risultare difficile da comprendere e persino da tradurre. La tradizionale associazione con una presunta “legge divina” rende ragione solo di una piccola parte dei suoi ambiti di applicazione, mentre è ancora una volta l’analisi linguistica a metterci sulla giusta strada. Il fatto che fas, insieme al suo contrario nefas, sia l’unico nome indeclinabile del latino non è casuale: fas non può essere messo grammaticalmente in relazione con nient’altro perché è la più pura espressione della parola efficace, che come tale è assoluta e non può avere un soggetto diverso da sé. Fas è, quindi, la parola autorevole che sancisce un comportamento non negoziabile, che può soltanto essere realizzato, senza distinguo e senza eccezioni. “Più che un sostantivo, fas è un sigillo, un timbro”.

Anche in questo caso, le parole costituiscono i reperti che, se opportunamente esaminati, ci permettono di comprendere la specificità di una cultura. Adottando una prospettiva interna, “emica”, ovvero cercando di spiegare le parole dei romani attraverso le parole con cui i romani hanno spiegato loro stessi, è possibile tentare di aggirare il paradosso per cui queste parole, alle quali ci affidiamo per ricostruire una cultura prevalentemente orale, sono tutte, inevitabilmente, parole scritte.

Ogni cultura – scrive Bettini prendendo a prestito l’immagine di un racconto dei nativi americani – attinge all’acqua dell’umanità utilizzando una coppa, cioè un peculiare amalgama di rappresentazioni mentali e categorie culturali, diversa da tutte le altre; la coppa dei romani si è rotta, ma possiamo tentare di ricostruirla attraverso i cocci che ci sono pervenuti. Ancora una volta, l’archeologia ci viene in soccorso per spiegare in che modo l’amore per la parola sia la chiave per avvicinarci agli antichi e alla loro diversità.

alice.bonandini@unige.it

A. Bonandini insegna lingua e letteratura latina all’Università di Genova