Limonov scrittore, quello vero | Segnali

La spina nel fianco di Putin

di Rosa Anna Giaquinta

Ecco finalmente l’occasione di parlare di Limonov. Di parlare di quello vero, dello scrittore, del poeta (già, Limonov è anche poeta), dell’ex spina nel fianco di Putin, dell’ex egocentrico provocatore che ha frequentato i bassifondi di New York e i salotti di Parigi. Quello vero, non la figura romanzesca che troviamo nelle pagine del bel romanzo di Emmanuel Carrère (Limonov, Adelphi 2012). Un fenomeno alquanto bizzarro, il grande successo del volume di Carrère: molti lettori italiani si sono appassionati alla biografia di uno scrittore del quale non conoscevano le opere, di un uomo che ha vissuto esperienze inimmaginabili per un occidentale. Di ciò va riconosciuto il merito a Carrère, scrittore specializzato non tanto nell’invenzione, quanto nella narrazione di vite che non sono la sua, che ha unito un’attenta lettura delle opere di Limonov, spesso disinvoltamente pseudoautobiografiche, a una corretta comprensione dei mutamenti della società russa tra gli anni novanta e gli inizi del duemila. Anche se lo scrittore ha affermato di non riconoscersi nella descrizione di Carrère, tutto in questa biografia è vero, la vita spericolata dell’eroe eponimo è reale, reale la dissennata comparsa a Sarajevo al fianco di Karadžić, reali l’arresto e i due anni di detenzione. Una vita davvero romanzesca, che certo potrebbe apparire inventata. Ed è il personaggio dalle esperienze estreme che ha colpito i lettori italiani, non lo scrittore. Anche perché lo scrittore era ed è ancora quasi sconosciuto.

Partiamo allora dall’inizio. “Limonov” è lo pseudonimo di Eduard Savenko, nato a Dzeržinsk, Russia, nel 1943, ma cresciuto a Char’kov, grosso centro dell’industria metallurgica nell’Ucraina orientale. Oltre al frutto, lo pseudonimo evoca la limonka, ossia la granata (e “Limonka” sarà il nome del giornale del Partito nazional-bolscevico creato dallo scrittore). In questo pseudonimo la rivolta, il contenuto esplosivo, la lacerazione sono proposti al potenziale lettore in modo programmaticamente provocatorio. Gli inizi di Eduard sono dedicati alla poesia: i suoi versi sono sorprendenti, mai tradizionali, con immagini grottesche che creano una sorta di narratività assurdista. Dal 1967 a Mosca, Limonov conosce e sposa Elena Ščapova, grande amore e tormento tra Mosca e New York: i due lasciano la Russia nel 1974. Poco dopo l’inizio di una difficile emigrazione Elena lo tradisce e lo lascia. Eduard non si inserisce affatto nell’ambiente dei fuoriusciti russi, è polemico con i colleghi scrittori e contesta apertamente la società americana che fa di lui un emarginato.

È a questo punto che nasce il Limonov prosatore. Nel 1976 ecco il primo romanzo, che è anche il suo insuperato capolavoro, Eto ja, Edička (letteralmente Sono io, Edička). Ma quest’opera per il lettore italiano non esiste. È stata tradotta da Marina Marazza nel 1985, ma dal francese, e dal francese prende anche il titolo, penosamente fuorviante: Il poeta russo preferisce i grandi negri. Questa edizione, inoltre, è assolutamente introvabile. Il romanzo è un grido di dolore, il dibattersi furioso di un giovane che vive il tradimento e la gelosia con una sorta di smania erotica masochistica, ed è la rivolta di un uomo che ha visto trasformarsi il sogno americano in una inarrestabile discesa verso il basso, verso la marginalità. Il dolore e il livore sociale esplodono in una lingua nuovissima per l’epoca, nella quale si uniscono la tenerezza del discorso amoroso e la violenza del linguaggio esplicito del sesso, per il quale il russo non ha forse ancora una lingua di traduzione che non sia il turpiloquio. Lo scrittore chiama le parti del corpo con parole da caserma e attenta alla purezza della lingua russa ibridizzandola con il suo inglese spesso approssimativo. Sconcerta quindi il lettore su vari piani, lo turba e lo coinvolge, lo costringe a soffrire e a ribellarsi con lui. Pubblicarlo fu difficile per le ovvie accuse di oscenità, e il libro uscì prima in Francia che negli Stati Uniti.

L’opera successiva di Limonov invece in Italia esiste, è Diario di un fallito (1977, tradotto nel 2004 da Marina Sorina), in cui dolore e rivolta sono ripresi e interiorizzati, a volte perfino con un certo lirismo. Anche questo è un libro che va letto. Come il primo, ci fa capire che lo scrittore ha individuato da subito il proprio percorso: sarà il narratore di se stesso. Dal 1982 lo scrittore si trasferisce a Parigi, poi negli anni novanta rientra in patria e si impegna in un’aspra polemica contro la nuova Russia travolta dall’economia di mercato, si dedica a un’intensa attività pubblicistica e si allontana dal filone pseudoautobiografico. Sono gli anni della creazione del Partito nazional-bolscevico, che non ha lunga vita ma desta scalpore e fastidio, anni irrequieti che si chiuderanno con un processo per detenzione di armi e tentativo di eversione e con il carcere, tra il 2001 e il 2003. A questo punto lo scrittore, ormai sessantenne, compie una nuova svolta. Abbandona l’autofiction per una forma nuova meno impegnativa, costituita da frammenti di diverse lunghezze, note, osservazioni, che lui unisce in base a un filo conduttore di volta in volta diverso. Ecco quindi i tre Libri dei morti (2001, 2010, 2015) e il Libro dell’acqua (2001), tempestivamente tradotto da Mario Caramitti. A questo nuovo genere appartengono le molte raccolte di ricordi del periodo della detenzione, tra le quali è stato tradotto da Giulia De Florio e Elena Freda Piredda Il trionfo della metafisica (2005, Salani 2013). In questa e nelle altre raccolte la galleria dei ritratti di detenuti ci colpisce per l’acutezza dell’osservazione, per la conoscenza che Limonov dimostra (ed esibisce) della Russia meno glamour, ma a emergere sono sempre la sua conoscenza dell’uomo, la sua saggezza nei comportamenti adottati nel carcere, la sua forza di volontà, la sua coerenza, il suo fascino, il tutto volto a definire i tratti di una personalità unica.

E arriviamo così alle due recenti edizioni Sandro Teti: Zona industriale (2018), tradotto da Sandro Teti e Stefano Fronteddu, e Il boia (2019), tradotto da Federico Pastore Edu (pp. 296, € 16, Sandro Teti, Roma 2019). Il primo tratta di un grigio periodo successivo alla scarcerazione, Il boia è invece uno dei primissimi lavori dello scrittore, è del 1982 ed è uscito per la prima volta in francese nel 1986; stupisce quindi (ma non poi troppo) il vederlo pubblicato oggi. Se all’autore, all’epoca, il tema sadomaso poteva causare guai giudiziari, i problemi che ha il lettore sono invece di altro tipo: le scene di sesso sono decisamente hard e, come già sappiamo, Limonov non usa eufemismi. Chi si scandalizza facilmente si tenga alla larga, chi è curioso può invece interessarsi alle vicende di Oscar, giovane polacco emigrato a New York, che decide, forse per vendetta sociale, ma certamente per sbarcare il lunario, di intraprendere una carriera come Master, dominante, e che riesce, con inverosimile rapidità, a legare a sé ricche signore del bel mondo newyorkese. Il romanzo presenta con ironia e malcelato disprezzo un mondo di intellettuali e imprenditori americani descritto in modo abbastanza convenzionale, e segue uno sviluppo da thriller; ma ciò che lo caratterizza sono, come si può immaginare, le scene di sesso, sadomaso e non, che nulla lasciano all’immaginazione. E il problema è proprio questo: Limonov qui dice tutto, entra in tutti i particolari, ma i particolari, più o meno ripugnanti o grotteschi (un grottesco del tutto involontario), non sono funzionali a un’idea, a una tensione interiore (l’amore calpestato, lo slancio rivoluzionario, come in Sono io, Edička), a un assunto ideologico (l’odio per una società che schiaccia gli ultimi, come in Diario di un fallito), e neppure alla crescita del personaggio come suo alter ego (come in Eddy-baby ti amo tradotto per Salani da Matteo Falcucci). Sembrano piuttosto non avere scopo alcuno se non quello di scandalizzare. E proprio per questo disturbano, forse, ma non turbano, non eccitano, non smuovono l’eros del lettore, che può essere coinvolto, chissà, soltanto dalla scena finale. Viene quindi da chiedersi perché mai Limonov, che nei due romanzi di esordio ha mostrato un’estrema maestria stilistica, un’immaginazione inquieta e parossistica e un vero genio per il disvelamento delle più recondite pieghe dell’io, tanto da imporsi come una sorta di Dostoevskij tardonovecentesco, scivoli deliberatamente sul piano del romanzo pornografico. Quanto è drammaticamente “sincero” nelle scene di sesso e di violenza dei primi due romanzi, altrettanto meccanico e freddo è nel Boia (che forse sarebbe stato meglio tradurre come Master, o almeno Carnefice), nel quale il protagonista pianifica a tavolino il proprio futuro, facendo di quella che dovrebbe essere una pulsione profonda una professione. Una spiegazione che si può ipotizzare è che, divertito ma anche infastidito dalle accuse di oscenità che avevano accolto il romanzo d’esordio, abbia deciso di andare beffardamente incontro a critici e detrattori, di accontentarli in pieno, di mettersi sul piano della loro angusta percezione, fornendo loro un vero romanzo porno, osceno in quanto privo di vissuto, di eros e di dolore. L’impressione è che Edička sia diventato adulto (quando scrive Il boia ha 39 anni), che abbia concluso il suo periodo di formazione come uomo e come scrittore e abbia deciso di passare a una nuova fase della propria vita: quella della costruzione di una personalità programmaticamente eversiva, spudorata e provocatoria, che è appunto ciò che farà nei decenni successivi.

Qualche parola sulla traduzione. Senz’altro scorrevole e controllata, adeguata all’originale, non rende però un buon servizio all’autore per l’abbassamento del registro lessicale, che Limonov in realtà si concede raramente. Se per indicare il sesso femminile il termine usato anche in russo è solo quello volgare, per quello maschile Limonov, guarda caso, è più rispettoso e usa di preferenza il termine “membro”, laddove nella traduzione troviamo quasi sempre la nota parola di cinque lettere: che essa sia ormai frequente nell’italiano non giustifica il salto di registro, soprattutto in un ambito, quello del sesso, che per Limonov è, se così si può dire, sacro. Così viene messo in parte a rischio il tono neutro, quasi notarile, con il quale le scene più estreme vengono descritte da un controllatissimo narratore.

E una coda sull’uomo Limonov: tra le tante cose di cui lo scrittore, con assoluta serietà, si fa vanto, c’è quella di non possedere beni di alcun tipo. Limonov scrive incessantemente e vive dei proventi delle sue pubblicazioni, che peraltro possono essere tutte lette o scaricate gratuitamente dal suo sito. Piaccia o no, al di là della provocazione il ribelle mostra una sua coerenza profonda, che lo porterà forse davvero, prima o poi, a una metafisica asciuttezza.

rosanna.giaquinta@uniud.it

R. A. Giaquinta ha insegnato lingua e letteratura russa all’Università di Udine