Il dono di Babele e il pericolo dell’eulinguistica: intervista ad Andrea Moro

Solo variazioni su un’unico tema

intervista ad Andrea Moro di Massimo Vallerani

Nel suo ultimo libro, lancia un attacco diretto alle teorie razziste basate sulla lingua: non esistono lingue migliori di altre perché, come dimostra la ricerca più avanzata, il linguaggio dipende da istruzioni iscritte nel patrimonio genetico che precedono l’esperienza dunque le influenze ambientali. Il linguaggio, in altre parole, segue un codice universale che appartiene a tutti, anche se parliamo lingue diverse. Quali sono le basi teoriche di questa visione “controintuitiva”?

Esistono tre tipi di prove a favore dell’ipotesi che tutte le lingue umane siano sostanzialmente variazioni su un unico tema, geneticamente determinato. Ci sono prove di tipo comparativo che mostrano come al di là di ogni ragionevole dubbio lingue molto distanti storicamente e appartenenti a famiglie distinte siano soggette agli stessi principi formali che limitano i tipi di regole. Ci sono poi le osservazioni sull’apprendimento spontaneo dei bambini che mostrano essenzialmente che al di là delle variazioni tra le lingue, che agli adulti sembrano molto diverse anche in termini di complessità, i bambini impiegano lo stesso tempo per apprenderle e commettono tutti gli stessi tipi di errori, che sono in realtà molto mirati e circoscritti. Infine ci sono le misure sulle attivazioni neuronali, un tipo di prova che non era nemmeno pensabile solo cinquant’anni fa. Si è visto che se il cervello viene esposto a lingue che non sottostanno a queste restrizioni le reti tipiche che sovrintendono la computazione linguistica vengono progressivamente disinibite mostrando che la classe delle lingue umane possibili è circoscritta prima di ogni esperienza da istruzioni genetiche espresse nell’architettura del cervello umano. In un certo senso nessuna delle tre prove è comprensibile senza le altre e senza le altre ha valore cogente: la svolta cruciale che fa rientrare la linguistica nella biologia è la convergenza di tutte e tre queste componenti che vanno dunque considerate in modo integrato.

Resta da spiegare l’apparente diversità delle lingue parlate. La difficoltà è duplice, perché le lingue restano irriducibilmente diverse nell’esperienza comune e una lunga tradizione “occidentale” lega la lingua alla cultura (o peggio al grado di civiltà) di un popolo. Quali sono le vie per sfondare questo fortissimo muro di senso comune? Come è possibile sterilizzare questo “bisogno di diversità” che emerge prepotente ogni volta che si usano, purtroppo con successo, strumenti “identitari” come lingua, nazione, cultura?

Spiegare la differenza tra le lingue, in realtà è in sé una sfida essa stessa duplice. Da una parte occorre spiegare la funzione di questa differenza che non può non essere stata oggetto della selezione naturale. Dall’altra occorre scrostare la sensazione legittima delle differenze da connotazioni di valore intrinseco. Per la prima domanda, una proposta che ho avanzato nel libro (e anche in altri precedenti) è che l’umanità deve aver giovato agli albori di questa incomprensibilità: la Babele delle lingue ha impedito che gli esseri umani si ammucchiassero in un’unica comunità ingestibile. La differenza tra le lingue ha agito come agiscono le infezioni sui gruppi di animali: aiuta a contenere le dimensioni. Questo, che ho chiamato “il dono di Babele” forse oggi è un ostacolo ma non si possono eliminare i tratti ereditati nel percorso evolutivo. Sul secondo punto, invece, si può agire in modo deciso, cercando di distinguere tra la passione soggettiva, che ci fa innamorare di una lingua e ce la fa considerare il segno di un’appartenenza viscerale, e i riscontri oggettivi, quantitativi e misurabili relativi alla comprensione e alla descrizione del mondo e all’elaborazione del pensiero razionale. In questo caso, i risultati sono netti. Non lo fossero si spalancherebbe le porte per il peggiore dei razzismi quello che non si basa su differenze somatiche, tutto sommato trascurabili e certamente non sostanziali, ma mentali.

Il libro mette in luce la responsabilità dei linguisti e in generale degli scienziati sociali. Non solo la divulgazione, ma la stessa ricerca di base è chiamata a rispondere delle conseguenze delle proprie ipotesi: intravede oggi un nuovo pericolo di cedere al mito delle razze nella linguistica o in altre discipline?

Il pericolo è enorme e non solo è fondamentalmente lo stesso che fornì il pretesto della preservazione e purificazione della razza ariana un secolo fa ma si aggiunge al miraggio della lingua perfetta adatta ad interfacciarsi con le macchine artificiali. L’eulinguistica – come la potremmo definire – oggi ha come alleato potentissimo sia la violenza di chi pensa di pensar meglio sia quella di chi pensa di poter inventare e imporre nuovi modi di pensare.

In quale misura oggi la (neuro)linguistica dialoga con la neurobiologia? In quale misura sposa questa tendenza a identificare le centrali operative delle emozioni e dei comportamenti in codici già iscritti nella mente umana?

Il dialogo tra linguistica e neurobiologia è molto difficile – e su questo non ci sono sorprese – ma quello che colpisce è che non si tratta solo di difficoltà intrinseche all’oggetto ma difficoltà ideologiche, sostanzialmente legate alla resistenza a riconoscere nelle lingue umane meccanismi formali precedenti all’esperienza. È un doppio debito: da una parte scontiamo il residuo dell’idealismo – e in Italia in misura ancora maggiore, se possibile, per l’influenza della tradizione crociana – che nega se non la legittimità almeno la rilevanza di un’indagine formale del linguaggio umano; dall’altra, ci si trova a dover smentire proprio l’impostazione elaborata dalla filosofia analitica nella prima metà del novecento per smontare l’idealismo, perché le regole del linguaggio venivano considerate manifestazioni di un contratto sociale, di “origine arbitraria e culturale”, parafrasando Lenneberg, e dunque non analizzabili in termini biologici. In questo senso, tuttavia, andrebbe ribadito che la neurolinguistica non può che occuparsi solo e soltanto delle restrizioni formali: emozioni e comportamenti rimangono fuori dal campo della struttura del linguaggio così come rimane fuori quell’aspetto che per primo Cartesio riconobbe come propulsore centrale di tutte le attività linguistiche, vale a dire la creatività, l’irriducibile capacità di tutti e soli gli esseri umani di creare significati nuovi e potenzialmente infiniti indipendentemente da qualsiasi condizione ambientale.

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