“Io mi scaglio fuori”, omaggio a Hölderlin di Hans Georg Bulla

La musa commentata

di Anna Chiarloni

A 250 anni dalla nascita di Friedrich Hölderlin “L’Indice” riscoprendo una antica rubrica, La musa commentata, propone un testo poetico di Hans Georg Bulla dedicato al grande poeta tedesco.

Hölderlin, solitär

Ein Vormittag mit offnem
Fenster, einer offnen Tür
behend durchs Zimmer ganz
getanzt, die Hände überm Kopf
den Takt geschlagen, Takt.
Mit den Nägeln etwas auf
die Haut gekratzt, etwas
Blut aus dem Gesicht
gekratzt, ich lock mich
selbst heraus, heraus

Un mattino con la finestra
aperta, aperta la porta
ballando agile per tutta
la stanza, alte sul capo le mani
il tempo battendo, a tempo.
Con le unghie qualcosa
come un graffio sulla
pelle, dal volto tracce di sangue
graffiato, fuori mi scaglio io
stesso, fuori

In Hans Georg Bulla, Kindheit und Kreide. Gedichte, Suhrkamp, 1986

Leggiamo insieme. Il testo ha un’intitolazione apparentemente esplicita: rimanda alla solitudine di Hölderlin (1770 – 1843), il celebre poeta tedesco che finì i suoi giorni a Tubinga, recluso in una torre sul Neckar. Ma il termine solitär, nell’accezione francese, richiama anche l’immagine di un diamante incastonato. Il titolo è diviso dalla virgola, una cifra stilistica frequente nella poesia di Bulla. Dieci versi divisi in due cinquine – due strofe che si fronteggiano. In totale assenza di rima, colpisce immediatamente la frequenza della ripetizione – cinque occorrenze: offnem-offnen; Takt-Takt; etwas -etwas; gekratzt-gekratzt; heraus-heraus. Come l’eco di un’altra voce? O come un’interferenza? Vedremo.

Osserviamo le immagini e lo strato fonico dell’originale. Una mattina ariosa, porta e finestra spalancate, quasi un fiato di vento nei primi due versi grazie al soffio delle fricative (Vormittag, offnem, Fenster, offnen). Dal terzo verso si coglie un agile moto di danza, introdotto dall’affettuoso behend, termine che anticamente significava bei der Hand, prendersi per mano. Il movimento attraversa uno spazio domestico – Zimmer: stanza, ma occhio a un’eco interna! – scivolando, modulato in quattro accenti, verso un enjambement allitterante: ganz/getanzt. Dal quarto verso si disegna sulla pagina una presenza: le mani levate sul capo, una figura batte il tempo, imperiosa nei tre accenti del quinto verso, e con parvenza onomatopeica, quasi a rendere il ticchettio dei calzari: den Tàkt geschlàgen,Tàkt.

Fedele alla sua funzione originaria (strofa deriva dal gr. στρέϕω “voltare”), la seconda strofa ruota la scena del testo. La visuale si fa instabile: una caratteristica, questa, della poesia di Bulla. Svanita la danza, i versi s’impigliano nei graffi, nel sangue di quel doppio, aspro gekratzt. La visione si oscura. Chi parla dietro quel volto graffiato con le unghie? L’io lirico si affaccia solo nel penultimo verso, e con un impulso di ribadito distacco da quella labile traccia di autolesionismo, e già proiettato in fuori, in un altro spazio. Dunque un io lirico in fuga dalla torre? No, c’è dell’altro. Qui entra in gioco l’ambiguità del linguaggio poetico, la sua (intraducibile) ricchezza. Perché a ben guardare quello scatto dell’io verso un altrove appare subito disdetto in punta di verso, il soggetto risulta infatti dimezzato tra un verso e l’altro: ich lock mich/selbst. Di più: in quel prefisso her della doppia nota di chiusura – heraus, heraus – (non hinaus!) non si avverte forse il latente alitare di un risucchio interno al testo? Che tende a ricondurre l’io alla torre, a quella stanza reclusa della prima strofa? In tedesco infatti her indica un moto verso chi parla, non un allontanamento. Fermiamoci qui. Ci siamo finora immersi in una analisi rigorosamente interna al testo. Veniamo ora al contesto.

Dove si colloca Hölderlin, solitär? Si tratta di una poesia pubblicata nella terza raccolta di Hans Georg Bulla – Kindheit und Kreide (Suhrkamp, 1986). Non abbiamo una data precisa ma il poeta, nato nel 1949 a Dülmen, una cittadina renana, tende a situarla nel clima dei primi anni settanta. Lo stesso titolo della raccolta – Infanzia e gesso – evoca una poetica à rebours, di meditazione sul tempo labile e remoto della propria formazione. Dobbiamo quindi chiederci: come si presentava in quegli anni il panorama letterario tedesco-federale agli occhi del giovane poeta, allora poco più che ventenne? La cornice è nota. Scemate le bufere rivoluzionarie del Sessantotto, esaurita la stagione della poesia impegnata di taglio brechtiano, la letteratura veicola un clima di malinconico disarmo. Non a caso il bicentenario della nascita di Hölderlin (1970) sollecita nei giovani letterati una diffusa identificazione – anche a Est; e in Italia si pensi a Zanzotto – con la figura di un intellettuale incompreso dal suo tempo. Si diffonde in quegli anni una diversa lettura del poeta svevo, sollecitata com’è noto dalla provocatoria tesi di Pierre Bertaux (1907-1986). Nel suo Hölderlin. Essai de biographie intérieure, lo studioso francese rovescia infatti l’interpretazione allora corrente del grande poeta svevo: la pretesa follia degli ultimi anni di Hölderlin non sarebbe stata secondo Bertaux che una forma di volontaria autoreclusione, di congedo da una società, quella tedesca, che aveva tradito le speranze di cambiamento alimentate dalla rivoluzione francese. Una tesi seducente, sostenuta da un anziano intellettuale che proveniva dalle fila della Résistance francese, dunque un combattente, un personaggio carismatico forte di un patrimonio ideale, a suo modo una figura di padre capace di affascinare le giovani menti di quella generazione orfana che – ricordiamolo – si percepiva, a causa delle atrocità naziste, figlia di una vaterlose Gesellschaft, una società senza padri. Una generazione, quella tedesca, dall’identità vacillante, che avanzava col passo del lutto: “Sento il sussurro dei morti”, scrive Bulla in quegli stessi anni. E ancora nel 1990 si chiederà: “Quale nome dovremo / faticosamente portare fin // nell’altra vita sangue nelle unghie e piombo”.

Con Bertaux siamo di fronte – sia detto di passata ma vale anche per Bulla – a un caso di doppia identificazione da parte di molta intelligenzija tedesca: non solo col grande poeta settecentesco ma anche con questo prestigioso Commissaire, un uomo d’oltre confine – e pertanto più affidabile, rispetto all’ossuta germanistica autoctona, in parte segnata dalla strumentalizzazione nazionalista della Deutsche Klassik operata dal nazionalsocialismo. Una prospettiva, quella di Bertaux, che privilegia non tanto le grandi odi, quanto piuttosto il frammento, l’ultima produzione, le parole spezzate della torre. L’esito forse più immediato e eclatante di questo nuovo sguardo lo si legge in Hölderlin di Peter Weiss (1971), una pièce nel cui gioco metrico la patologia del poeta diventa pathos, veggenza, capacità di divinare la storia.

Tradotto in tedesco nel 1969, il libro di Bertaux diventa un passaparola nelle aule universitarie di Münster e Costanza, dove Bulla studia germanistica. Qui Bruno Ganz, allora poco più che debuttante, declama in un teatro gremito l’Hyperion. Costanza non è lontana da Tubinga. Alla stanza (Zimmer) nella torre sul Neckar migra in pellegrinaggio la gioventù di quegli anni. Ancora i locali avevano memoria di Ernst Friedrich Zimmer, il falegname che fin dal 1808 si era preso cura di Hölderlin. Ancora si sussurrava di uno “Scardanelli” sfregiato e scomposto, preso nella voragine della follia. È questo l’humus, il retroterra culturale da cui discende la poesia di Bulla inclusa in Kindheit und Kreide. Ricordando quei tempi, Bulla dirà quanto decisivo sia stato per lui l’incontro con Hölderlin, quanto vitali le ore passate in biblioteca, immerso non tanto nelle grandi odi, quanto piuttosto nel buio dei tardi frammenti poetici, alla ricerca delle radici di un processo genetico che andava inseguendo fin dal liceo, quello del nesso tra genio e follia.

Situata nel contesto di quegli anni, la tessitura scenica del nostro testo, Hölderlin, solitär, risulta ora più chiara nelle sue articolazioni interne. Se la prima strofa, al cui centro s’incunea per sovrapposizione il nome di Zimmer, si regge sulla visione fantasmatica di un ritmo di danza esterna allo sguardo dell’io lirico, la seconda strofa rivela una strategia di totale identificazione interiore dell’io col poeta svevo. L’ordine sintattico del discorso consente infatti di leggere i versi sesto e ottavo come attributi del soggetto stesso. Decisiva è qui la valenza ossimorica del verbo sich herauslocken. Il ventaglio semantico si allarga segnalando un’oscillazione. L’io s’interroga, si fruga e si stana. Dimezzato, si ritrova in intima vicinanza alla tarda poetica di Hölderlin, si fa corpo-specchio di una lacerazione interiore. Quel volto graffiato è anche il suo. Suo è anche l’ubbidiente allinearsi nell’eco della ripetizione che come uno staccato chiude il testo: heraus, heraus. Ecco allora che quell’embrione di ritorno, quell’ago che punge nella particella her, assume una valenza esistenziale. Traccia il destino dell’autore, lo riconduce per mano alla nota dominante del titolo: alla solitudine di Hölderlin, a quell’erratico Solitär incastonato nella storia della letteratura tedesca.

anna.chiarloni@unito.it

A. Chiarloni ha insegnato letteratura tedesca all’Università di Torino