Michel Houellebecq – Serotonina

Tutto è chimica e Freud era un buffone

di Luca Bevilacqua

Michel Houellebecq
SEROTONINA
ed. orig. 2019, trad. dal francese di Vincenzo Vega,
pp. 332, € 19,
La nave di Teseo, Milano 2019

Qual è il confine che separa la depressione, in senso clinico, dalla comune tristezza che affligge un individuo allorché, lontano dagli anni migliori, prende coscienza d’aver perso – per sempre – non solo quella stagione, ma con essa le rarissime occasioni per poter essere felice? Come restare in piedi, come sopravvivere, nell’evidenza del proprio disastro? Possibile che sia solo faccenda organica di molecole, o di umori (come riteneva la medicina medievale), a fare la differenza tra chi riesce a rilanciare, anche quando è tardi, facendo prevalere un intimo e fiducioso “ma su!”, e chi invece soccombe pian piano, imprigionato dal muro insormontabile del “tutto è inutile”? L’incipit di Serotonina, ultimo romanzo di Michel Houellebecq, ci proietta all’istante nella questione: “È una piccola compressa bianca, ovale, divisibile”. Così si presenta esteriormente il Captorix. In quel farmaco di ultima generazione, che regola nell’organismo il livello di serotonina, in quella dose giornaliera di antispleen dovrebbe trovarsi il possibile rimedio: ciò che fa, appunto, la differenza. Ciò che non aggiusta certo la vita (come potrebbe?), ma intanto le dà ancora una possibilità. Oppure no?

“Verso le cinque o a volte le sei di mattina mi sveglio, il bisogno è al culmine, è il momento più doloroso della mia giornata. Il mio primo gesto è attivare la caffettiera elettrica (…). Mi accendo una sigaretta solo dopo aver bevuto un primo sorso (…). Il sollievo che mi dà la prima boccata è immediato, di una violenza stupefacente. La nicotina è una droga perfetta, una droga semplice e dura, che non dà nessuna gioia, che si definisce interamente con l’astinenza, e con la cessazione dell’astinenza”. Così si presenta il quarantaseienne Florent-Claude Labrouste, il protagonista del romanzo. E comincia il suo racconto col breve rituale mattutino d’ogni vero fumatore. Comprendiamo perciò immediatamente che quella compressa non basta. C’è bisogno di altre droghe, come le sigarette, o l’alcol, o i ricordi (sempre gli stessi), o le fantasie. E qualche vago proposito masochista.

Rivedere una propria ex. Perché? Ma è ovvio: perché è appena finita una relazione. Non c’è dubbio che Houellebecq sappia cogliere magistralmente alcune dominanti della società contemporanea. E poco importa che sia stato additato, con alcuni suoi romanzi, per essere un sociologo improvvisato, o all’opposto un artista visionario. Poco importa che qualcuno s’affanni solo a valutare la sua capacità di decifrare il nostro mondo occidentale. Non è questo il compito di un romanziere (dirci chi siamo o dove stiamo andando). Si tratta semmai di verificare se la sua visione, ovvero gli episodi che racconta, ci rappresentano oppure no. E io credo che la scelta di raccontare ad esempio il bisogno impulsivo di rivedere una ex (nel romanzo, Claire), salvo poi pentirsene già prima dell’appuntamento e poi pentirsene nel corso dell’appuntamento e poi ancora più tardi: tutto questo tocca incredibilmente da vicino la storia personale di un qualche miliardo di persone, non soltanto occidentali. Perché? Perché non sappiamo in fondo granché di noi stessi, anzi quasi nulla (ed è a volte una scoperta rovinosa): non sappiamo niente che vada al di là delle relazioni che abbiamo avuto.

Però se andiamo a cercare, quand’è trascorso molto tempo, i testimoni viventi della nostra vita passata (l’ex- fidanzata, o un vecchio amico: nel romanzo Aymeric), tale azione difficilmente innesca qualcosa di positivo. Semmai è un nuovo motivo di angoscia, un’ulteriore esperienza della perdita, quando non è apertamente l’ombra funerea in cui ci appare la vita attuale del nostro ignaro testimone, a prendere il sopravvento. La miseria di quello spettacolo, la solitudine che induce al mutismo più che al dialogo, la frustrazione per il non poter fare nulla.

Alcune battute disseminate nelle prime venti pagine del libro lasciano intuire che il protagonista non tralascerà nessun particolare del racconto. Espressioni come “di questo parleremo più avanti”, oppure “a questa cosa ho già fatto cenno”, svelano la precisione ossessiva di chi pretende completezza e rigore nell’enucleare i fatti, quasi a illustrare una catastrofe imminente. La pedanteria di certi passaggi, affidata spesso all’impiego delle parentesi, scatena in molti casi un effetto comico. In particolare la pedanteria applicata alla descrizione di fatti sessuali, o a digressioni romantiche che in modo inatteso (per chi non conosce Houellebecq) si legano ai precedenti. Ridiamo allora, come lettori, per l’effetto di contrasto. E rischiamo di scambiare per gratuito cinismo quella che in realtà è stata – un tempo, da qualche parte – tenerezza. O ancor più banalmente, desiderio di essere felici.

Procedendo nella lettura si ride sempre meno. Finché non appare chiaro: il centro del libro, ancor più che il finale, corrisponde a una resa dei conti. Ed è questo a spiegare, in fondo, quel desiderio di esattezza, la precisione flaubertiana nello scegliere particolari anche minimi – l’interno di una camera, un paesaggio, le varie parti d’un fucile di precisione – particolari che non solo spiegano le circostanze nei dettagli, ma le illuminano, rendendole accessibili a quei lettori che, come vorrebbe il protagonista, presteranno grande attenzione ai fatti: forse anche più di lui stesso. Non è un uomo freddo né cinico, questo narratore. È un uomo stanco, questo sì. A volte, quando ricorda un’altra ex, Kate, il suo resoconto diviene lirico, struggente. Ed è sensibile, persino empatico. È in grado di percepire lo slancio quasi eroico del suo medico psichiatra, il dottor Azote, colui che gli prescrive l’antidepressivo e a distanza di tempo vuole toglierglielo perché ha la percezione che il paziente si è aggravato e sta “molto semplicemente morendo di tristezza”.

È stato notato, forse a ragione, che in tutti i suoi romanzi Houellebecq parla della depressione. Ma è altrettanto vero, secondo la formula attribuita a Schopenhauer, che si scrive sempre un solo libro. Quanto al tema, il racconto della depressione diviene inevitabilmente esame della condizione umana. Perché la depressione è anche fonte d’una abbagliante, e perciò ardua da sopportare, luce di verità. Sull’uomo, sul suo rapporto col passato e il futuro, e, più d’ogni altra cosa, sul suo desiderio di amore. Che non a caso è il motivo che chiude, come davanti a un abisso di silenzio, il romanzo. Forse il tempo ci dirà se sia questo il suo libro migliore. Un romanzo che contiene tanta letteratura, soprattutto francese, come riferimento esplicito. E pone un rifiuto radicale nei confronti di Freud e delle sue false speranze. Freud, “il buffone austriaco”, secondo una lapidaria sentenza del protagonista di Serotonina. Non a caso, il libro non racconta nessun tentativo di psicoterapia affidata alla parola. E per una volta, la scrittura non si offre come antidoto alla vita. Houellebecq, certo, non è Proust. Eppure in alcuni momenti ce lo ricorda, paradossalmente, per il suo desiderio febbrile di verità. E per la tenerezza che affiora nel supremo, e forse unico rimpianto, il ricordo del tempo trascorso con la persona amata: “Conservo un ricordo strano di quel periodo, non posso che paragonarlo a quei momenti rari che si creano solo quando si è estremamente sereni e felici, e si esita a sprofondare nel sonno, trattenendosi all’ultimo secondo con la consapevolezza che il sonno che seguirà sarà profondo, delizioso e ristoratore”.

lucabevi@yahoo.it

L. Bevilacqua è francesista