Murakami Haruki e Ozawa Seiji – Assolutamente musica

Un dialogo rinascimentale

di Vittorio Coletti

Murakami Haruki e Ozawa Seiji
ASSOLUTAMENTE MUSICA
ed. orig. 2011, trad. dal giapponese di Antonietta Pastore,
pp. 306, € 19,50,
Einaudi, Torino 2019

Il libro delle conversazioni del celebre romanziere Haruki Murakami col grande direttore d’orchestra Seiji Ozawa, suo connazionale, è una delle letture più belle e affascinanti che può oggi fare chi ama la musica. Lo ha appena tradotto e pubblicato Einaudi e la recensione di Alfredo Bruno restituisce qui l’atmosfera e le acute sensibilità che avvolgono questi dialoghi semplici e profondi, che ricordano per la sobria eleganza (la scrittura è ovviamente di Murakami) e la padronanza della tecnica (Ozawa è uno dei maggiori direttori d’orchestra del mondo) quelli del Rinascimento. Il piacere intellettuale che questo libro sta dando ai suoi lettori, subito numerosi, fa però pensare che è purtroppo sempre più raro, specie in Italia, leggere un libro di musica chiaro e interessante anche per i non addetti ai lavori, un libro per amanti e dilettanti di musica classica e non solo per musicisti e musicologi. La cultura musicale, intesa come sensibilità ai valori poetici della musica e attenzione alla valenza storica delle sue forme e alla loro evoluzione, ha sempre avuto poco spazio e considerazione in Italia, che pure è la patria del teatro musicale; e oggi ne ha ancora meno di ieri. Sicché un libro come questo è una perla rara, specie nei cataloghi dell’editoria commerciale di pregio. Basterebbe confrontare il numero e la qualità delle pubblicazioni musicologiche uscite da Einaudi o Adelphi fino a pochi anni fa (da Mila a Pestelli a Bortolotto) con quelli di oggi per rendersene conto.

Ci sono, certo, editori minori coraggiosi e attenti (il Saggiatore, Donzelli, Carocci) che non trascurano la musica, ma perlopiù i saggi musicali escono da case specializzate che faticano a raggiungere il lettore colto medio. Solo qualche, per altro prezioso, libro di memorie o riflessioni di artisti celebri (Mehta, Muti, Barenboim) arriva sui banchi più in vista dei librai. Basterebbe entrare in una grande libreria ed esplorarne gli striminziti e lacunosi scaffali di musica per rendersi conto di questa realtà. Ma perché succede questo? Perché il libro di musica non interessa gli editori maggiori? Certamente perché il suo mercato è ancora più piccolo di quello dell’altra “varia”. Ma come si spiega questa scarsità di lettori, quando gli spettatori dei concerti e dell’opera lirica non mancano e ogni sera, nelle maggiori città, migliaia di persone mangiano un boccone in fretta e più presto del solito per correre a un concerto o all’opera, per cui pagano anche salati biglietti? Almeno una parte di questo pubblico di amatori non avrà le stesse curiosità e piacere di conoscenza di Murakami? Perché l’editoria non lo cerca e non gliene propone? Per vari motivi, credo. Intanto, perché l’editore oggi è sempre più assillato dai bilanci e non può o non vuole più permettersi iniziative a rischio. E quella musicologica lo è, perché in Italia ci sono più musicisti che lettori di musica e di cultura musicale, esattamente come ci sono più poeti che lettori di poesia e critica letteraria. Ma la quantità dell’offerta editoriale del libro di critica musicale non è pari nemmeno a quella del libro di critica letteraria. Perché? Io credo che, come e ancor più che nella critica letteraria, ci sia un problema in quella musicale e soprattutto nella sua variante oggi più praticata: la musicologia universitaria. La critica musicale, pur ancora ben presente e con autori di qualità sui giornali, arriva al libro (a parte qualche luminosa eccezione come Quirino Principe) più con note di colore, vezzi ed estri personali, che con approfondimenti e informazioni culturali. E la musicologia? Ci arriva nella sua attuale versione accademica, tutta filologismo ed erudizione, che pare fatta apposta per tenere lontano il lettore pur colto ma non specializzato. Esce in edizioni impeccabili e illeggibili, saggi raffinati in cui le note sono più lunghe del testo, studi documentatissimi dedicati a non più di una composizione e destinati a non uscire dal circuito universitario. In parte, è una malattia comune a tante discipline, oggi.

La prospettiva accademica ha prevalso su quella culturale in molti ambiti del sapere umanistico; ma in quello musicale lo ha fatto ancora di più e, dato il carattere separato del linguaggio della musica, con effetti ancora più negativi. Di un romanzo possiamo sperare di capire qualcosa anche solo leggendolo; in fondo è scritto nella nostra lingua. Ma di un componimento musicale, se qualcuno non ci aiuta ad entrarci un po’ dentro e a esplorarne i dintorni, possiamo al massimo dire se ci piace o no, ma non sapremmo neppure dire perché. La musicologia accademica oggi ha il culto dell’inedito, dell’edizione critica anche di testi minori, del dettaglio biobibliografico erudito, delle note a piè di pagina; tutte cose buone, utili, necessarie, persino (le edizioni) indispensabili, ma che non bastano a dar conto della musica, del perché e come la ascoltiamo, del suo contributo alla storia delle arti e del pensiero. La filologia ci aiuta a leggere il testo giusto, ma se non lo collochiamo in un luogo, in un momento preciso della storia culturale e musicale, ne sapremo sempre troppo poco. Se la tecnica con cui è scritto o eseguito non ci dice che sé stessa, possiamo ammirarla ma non capirla e rischiamo di scambiare la descrizione per la ragione. E per di più – questo è forse il tratto più preoccupante – una descrizione tautologica, in linguaggio musicologico e non comune, come è invece quella che ci offre il limpido dialogo tra Murakami e Ozawa, tutto puntato sulle tecniche di esecuzione, ma capace di trascriverle nella nostra lingua, dare loro un senso e vedervi le tappe dell’evoluzione delle forme musicali e della loro ricezione-interpretazione (esemplari soprattutto le conversazioni su Mahler). Il male della musicologia, come dicevo, è diffuso oggi nelle discipline umanistiche, animate da sacro e lodevole fuoco scientifico, ma sempre più sprovviste o incuriose di cultura generale, di interesse per il valore storico e il significato attuale di un testo, autogiustificate dalla loro stessa impeccabilità, che, paradossalmente, rischia di escludere da esse tutti quelli (spettatori, ascoltatori, lettori) per cui sono pensati e realizzati gli oggetti dei loro studi. Nel secondo Ottocento e soprattutto nel Novecento, musicisti e musicologi avevano sviluppato una forte dimensione intellettuale, filosofica ed estetica (cito a caso: Mazzini, Wagner, Adorno, Berio, Nono, Abbado, D’Amico) e avevano pensato o composto o diretto musica anche in rapporto alle altre arti e dentro la storia della società e del pensiero. Oggi questa prospettiva rischia di essere abbandonata. Tanto si cresce in padronanza tecnica e filologica, quanto si perde in respiro intellettuale.

Qualcuno ovviamente non ha rinunciato a pensare la musica in grande e dentro la complessità della vita e della storia, a scrivere libri chiari su opere o autori o epoche della musica. Ma i più ci stanno rinunciando e anzi, nelle università, sta diventando una nota di merito l’atteggiamento opposto: l’approccio meticoloso (ma angusto), la ricchezza di dati (ma la povertà di idee), il timore dell’interpretazione. Il risultato è che, privo di sussidi interpretativi importanti e accessibili, anche l’amatore, lo spettatore fedele di concerti e opere, non acquisisce o smarrisce una conoscenza della musica come manifestazione speciale della cultura, della società e della storia. Si appassiona agli esecutori, ai cantanti, ai direttori d’orchestra, come un tifoso a un calciatore o a una squadra, ma la musica, che pure ascolta devotamente ogni settimana, non migliora più la sua cultura e non perfeziona la sua umanità.

vittorio.coletti@unige.it

V. Coletti è professore emerito di letteratura italiana