Natalia García Freire – Questo mondo non ci appartiene

recensione di Vittoria Martinetto

Natalia García Freire
Questo mondo non ci appartiene (Nuestra piel muerta)
pp. 147, €. 15,00
traduzione dallo spagnolo di Lara Dalla Vecchia
SUR, Roma 2022

Natalia García Freire è una scrittrice ecuadoriana nata nel 1991 e questo è il suo romanzo d’esordio che mostra fin dalle prime battute una notevole maturità narrativa. È soprattutto lo stile a colpire: poetico, evocativo, ricco di immagini suggestive ma al tempo stesso volto alla ricerca di un laconismo che ricorda certi romanzi tellurici latinoamericani, dove il localismo trasuda universalità nel mettersi in relazione con grandi concetti come l’alienazione, l’abbandono, la morte, finendo per creare topografie sospese nel tempo e nello spazio. Impossibile non pensare a Juan Rulfo, maestro ignaro e indiscusso di tanti scrittori latinoamericani, anche per l’incipit dall’atmosfera onirica in cui un figlio, Lucas, racconta il ritorno alla casa paterna, da cui è stato allontanato per anni, usurpata da due estranei: “Su e giù per le colline ho camminato scalzo sulla terra nuda, piana o sassosa, terra morta con lapidi di selce. Mi sono lasciato alle spalle tutte le strade cariche di vento e brezza e più mi avvicinavo, più sentivo quest’aria oscena che ora avvolge ogni cosa in questo luogo, e che trasuda dalle crepe delle vecchie pareti di mattone crudo, dalle fessure della carta da parati, che si stacca come pelle morta; quell’aria che pare intorbidire lo spazio fino a dargli una tonalità seppiata, come d’abbandono, e fondere sul pavimento tutte quelle forme indefinite di immondezza”. 

La narrazione si presenta come un monologo rivolto al padre defunto, che via via ricostruisce – in un’alternanza di riferimenti al presente e al passato – la storia di una famiglia, di una casa e di una vita che non esistono più, dissotterrando verità scomode e gettando una nuova luce sul padre stesso, individuo disonesto e codardo, meritevole dell’odio che il figlio prova. Il drammatico appello che gli rivolge, infatti, è venato di nostalgia soltanto per il mondo che il padre ha contribuito a mandare in rovina: quello di un’infanzia poetica in simbiosi con la natura e con il femminile, grazie alle deliziose balie e alla stravagante madre. È da lei – totalmente dedita alla botanica e allentomologia – che il figlio ha ereditato la curiosità per la vita della terra, fino a quella in miniatura degli insetti. Invece di mostrarsi sposa abnegata e cristiana, la madre vive assorta in astruse contemplazioni che la condannano a venire relegata in una casa di cura: “Io sapevo che non era lei a guardare il mondo, sapevo che lì fuori c’era qualcosa che guardava lei. Era calma come chi sa di essere osservato, come un uccello che qualcuno scruta con un binocolo o un insetto esaminato con la lente di ingrandimento. La sua pelle era così sottile che a volte sembrava che tutte le sue vene fossero sul punto di sollevarsi come le radici di un albero invisibile che si mettesse a camminare, attraversandole il cuore e il petto e liberandola da se stessa”. 

Su questa lettera al padre dalle suggestioni kafkiane, sembra gravare un senso di imminente catastrofe, se non fosse che la catastrofe è già avvenuta e non c’è redenzione nel ripercorrerne le cause, ma solo risentimento: “Perché adesso lo so – riflette Lucas – ogni padre ha un dio dentro e guarda i suoi figli come statuine d’argilla, sempre incompiute, e vuole ricrearli ancora e ancora a sua immagine e somiglianza, e così facendo li condanna: lancia piaghe e diluvi e maledizioni contro di loro e poi li perdona solo per vanità. E tutti gli uomini della terra, come me, non sono altro che figli d’argilla timorati e pieni di crepe che vagano per la vita ora senza un braccio. Ora senza una gamba, ora deformi. Anche se nessuno può vederci”.