Nathan Englander – kaddish.com

recensione di Fiorenzo Iuliano

Nathan Englander
kaddish.com
trad. dall’inglese di Silvia Pareschi

pp. 208, € 18,50
Einaudi, Torino 2020

Quella che Nathan Englander racconta in kaddish.com è, insieme, la storia di un pentimento e una meditazione sulla natura, individuale o collettiva, della colpa, della responsabilità e dell’espiazione. Il raffronto fra tradizione ebraica e modernità, uno dei temi più interessanti del romanzo, si snoda tanto nella narrazione quanto nella riflessione a questa sottesa, che interroga alcuni postulati dell’etica ebraica nella realtà odierna degli Stati Uniti. La storia di Larry inizia durante lo shivah, i sette giorni di lutto che seguono la morte di suo padre: unico erede maschio della famiglia, toccherebbe a lui celebrare il kaddish, la preghiera funebre, per un intero anno dopo la scomparsa del genitore. Tuttavia, nel tormento di quei giorni trascorsi tra le reprimende della sorella Dina, nella cui casa in Tennessee si è recato dopo avere appreso la notizia, le pressioni della comunità religiosa che insiste perché rispetti i riti funebri e adempia ai suoi doveri filiali, e la pornografia in rete che gli tiene compagnia, Larry decide di rifiutare gli obblighi impostigli dalla fede e delegare allo sconosciuto Chemi, un ragazzo israeliano trovato sul sito kaddish.com, il compito di recitare il kaddish per l’anno a venire. Con un salto temporale che può spiazzare chi legge – e che non è stato granché apprezzato da chi ha finora recensito il romanzo – ci troviamo a Brooklyn venti anni dopo. Rinnegate le insubordinazioni giovanili, Larry ha ripreso il suo nome ebraico, Shaul (o più informalmente Shuli), è padre intransigente di due bambini e insegna in una scuola ebraica, dove instaura un rapporto speciale con un allievo, Gavriel, come lui orfano di padre. È proprio grazie a Gavriel che Shuli decide di rimediare a quella che gli pare ormai una colpa insostenibile e di assumersi le responsabilità e i doveri di figlio. Questa decisione lo porterà a Gerusalemme, alla ricerca della yeshiva in cui studiava Chemi, e alla disarmante scoperta che lo attende: non c’è nessun Chemi, in realtà, e l’iniziativa promossa da kaddish.com, pure se irreprensibile “sotto l’aspetto halachico”, come gli aveva assicurato il rabbino sul letto di morte del padre, era semplicemente una truffa.

È in questa scoraggiante rivelazione che si giocano le implicazioni più sottili del romanzo. Da una parte, Shuli scopre che a farsi beffe dei precetti dell’ortodossia non sono solo i giovani ebrei laicizzati che vivono a New York, ma pure facoltosi signori di mezza età di Gerusalemme. Dall’altra, affiora in lui il sospetto che le nuove tecnologie informatiche possano mettere in discussione i presupposti basilari della fede: l’occhio onnisciente di Dio, dopo tutto, è così diverso dalla visione globale offerta da Google Street View, che consente a Shuli di rintracciare la presunta yeshiva di Chemi? Tuttavia, i dilemmi che la storia di Shuli portano alla luce sono ben più impegnativi: a chi spetta concedere il perdono? A chi la salvezza? Quanto è ancora accettabile il principio per cui un peccato commesso inconsapevolmente (quale è stata, di fatto, la mancata recita del kaddish per suo padre) sia in ogni caso causa di dannazione per i singoli? E ancora: in cosa è riposta la fede? Nella carità e nel perdono, come più volte suggerisce sua moglie Miri, molto più ragionevole e pragmatica di lui (e, probabilmente, il personaggio meglio riuscito dell’intero romanzo), oppure nella disciplinata osservanza della prassi religiosa? I riti, come insegna Shuli al suo allievo prediletto, “creano un legame nel tempo che ci protegge dal caos”. Il senso di una temporalità dilatata e che però è possibile incapsulare in un istante, a patto di coglierne l’unità sostanziale, pervade il romanzo, e si traduce nella ricercata continuità tra generazioni.

Nella scrittura di Englander sono state rintracciate le influenze di Philip Roth o addirittura di Franz Kafka – e si potrebbe aggiungere Chaim Potok, il cui respiro narrativo si percepisce in certi brani di quest’ultimo romanzo. Tuttavia, più che con “La metamorfosi”, come suggerisce Tova Mirvis nel New York Times, è con la Lettera al padre che kaddish.com condivide la riflessione sull’eterna condizione di figlio che non riesce ad affrancarsi dall’autorità paterna. Anche Shuli, come Franz, passa il resto della propria vita a fare i conti con l’ingombrante lascito paterno che, in maniera contraddittoria, continua a ipotecare ogni giorno della sua vita. A differenza di quanto succede a Kafka, però, per Shuli questo conflitto alla fine si risolve, traducendosi, con un trionfalismo forse eccessivo e dagli esiti narrativi non sempre felici, nell’aspettativa messianica della salvezza dell’umanità tutta. Non accontentandosi di sobbarcarsi del solo kaddish per il suo genitore, infatti, Shuli decide di farsi carico dei kaddishim non celebrati da quanti, come lui, avevano cercato ignari una salvezza per procura nelle risorse pragmatiche della modernità laicizzata, illudendosi di averla trovata nelle pagine allora rudimentali di un sito internet.

F. Iuliano insegna Letteratura angloamericana all’Università di Cagliari