Nikos Kazantzakis – Odissea

Un oceano poetico di vertiginosa bellezza

di Gilda Tentorio

Nikos Kazantzakis
Odissea
ed. orig. 1938, trad. dal greco di Nicola Crocetti,
pp. 832, € 35, Crocetti, Milano 2020

Amazon.it: Odissea - Kazantzakis, Nikos, Crocetti, Nicola - LibriUlisse, archetipo dell’immaginario occidentale, ha attraversato le acque tempestose del XX secolo e ha espresso le inquietudini dell’uomo contemporaneo in capolavori assoluti, da Joyce a Walcott. Ma quando a confrontarsi con il mito antico è un autore greco, si tratta di un’operazione culturale con un forte investimento sul sé, una riflessione sulle proprie radici, sul privilegio e il peso dell’eredità. Per il cretese Nikos Kazantzakis (1883-1957), intellettuale eclettico e sperimentatore, l’impegno diventa missione: tredici anni di lavoro (dal 1925 al 1938) portano a un’opera immensa, in ventiquattro Canti, sotto il segno magico e sacrale del numero tre, cioè 33.333 versi! Questo epos monumentale e modernissimo è l’Odissea, da pochi mesi fruibile nella traduzione italiana di Nicola Crocetti, già arrivata alla terza ristampa. Kazantzakis stesso ha spiegato la genesi del suo capolavoro nell’autobiografia romanzata Rapporto al Greco (1961; Crocetti, 2015). Ulisse non si fa scegliere, è lui stesso a scegliere di tornare in vita, per indicare una via all’umanità. E infatti, mentre all’orizzonte si profilano i tempi bui dei totalitarismi (la “costellazione dell’angoscia”), Kazantzakis comincia a “sentire” la presenza di un’ombra gigantesca: risata fragorosa, mente acuta e insaziabile, è così che si manifesta beffardo e mercuriale l’antenato di Itaca. Occorre quindi cercare di fermarlo sul foglio, dargli nuova voce in un poema che possa parlare alla Grecia e al mondo. Alla ricerca di una forma possibile, Kazantzakis trova il decaeptasillabo, un verso lungo “come il respiro del mare cretese”, e con amore incontenibile per la lingua greca, lotta per “salvare” migliaia di termini della voce del popolo che sono a rischio di estinzione. Il progetto è ambizioso: riscoprire le iridescenze della lingua e i semi della tradizione, e al tempo stesso riversare i palpiti e le lacerazioni dell’epoca contemporanea. Il suo Ulisse pertanto è profondamente greco ma anche universale, compie un viaggio di esplorazione geografica e metafisica, attanagliato da dubbi esistenziali e speranze, aspirazioni e cadute.

A chi paragonare questo Ulisse? Nella sua brama irrequieta di misurarsi con il mondo e con Dio, somiglia a quegli animali che nell’ideale bestiario dell’autore, sono capaci di valicare il proprio limite per creare un’alterità possibile e preziosa: il baco da seta, il bruco che si trasforma in farfalla, il pesce-rondine che osa il salto mortale nel tentativo di superare la propria natura e spiccare il volo. Allo stesso modo, Ulisse si spinge sempre oltre, insaziabile. Infatti Kazantzakis immagina l’eroe, tornato nella sua piccola Itaca, che non resiste nell’asfittica realtà isolana e domestica, e con una scalcinata compagnia di simpatici avventurieri parte per un secondo viaggio. Dapprima sembra ricalcare le orme dell’antico: come Telemaco in Omero, così anche Ulisse va a Sparta presso l’amico Menelao che però non vuole seguirlo e lo accompagnerà invece Elena, cioè la bellezza. Poi, quasi in un viaggio a ritroso verso le origini, fa tappa a Creta, dimora di una civiltà arcaica e in decadenza, che contribuisce a distruggere. Si reca quindi in Egitto, dominato da faraoni indolenti, e lotta contro le ingiustizie sociali, aiutando gli schiavi in rivolta. Per una decina di Canti (dal IX al XX) l’Odissea ha un’anima africana: Kazantzakis ha studiato saggi di etnologia e antropologia, è affascinato dal continente nero e considera l’Egitto matrice e simbolo della condizione umana, stretto fra le sabbie della morte (il deserto della vita moderna) e l’acqua della vita (le potenzialità del futuro), il principio femminile della terra e la virilità fecondatrice del Nilo. Mentre Ulisse, instancabile, riprende il suo viaggio e si dirige verso Sud alla ricerca delle mitiche fonti del Nilo, gli orizzonti spaziali e temporali si fanno sempre più rarefatti: attraversa il deserto, costruisce una città ideale che sarà distrutta da cataclismi. Si ritira allora in solitudine e sperimenta la meditazione ascetica, acquisisce il “terzo occhio” della conoscenza, incontra personaggi straordinari (Buddha, Cristo, Don Chisciotte). Infine, arrivato ai limiti meridionali del continente, va incontro alla morte in una nave-bara, fra i ghiacci dell’Antartide.

Gli studiosi hanno voluto riconoscere in questo itinerario le tracce dei tre stadi della vita secondo Kierkegaard: nei primi canti Ulisse abita il mondo in modo sensuale ed estetico; in Egitto mostra una vocazione etica; infine si allontana dall’umanità, in un’attitudine metafisica che gli permetterà di guardare con serenità l’abisso, senza speranza e senza paura, raggiungendo la libertà assoluta (“benvenuto fiato gelido della feroce libertà”). Tuttavia i modelli filosofici si sovrappongono in un ricco sincretismo di suggestioni: Ulisse ha i tratti del Superuomo di Nietzsche ma anche del Buddha, sperimenta la lotta di classe (Marx), l’utopia di una nuova civiltà (Platone), la fluidità e la dissoluzione del tempo (Bergson). Egli è corpo che gode e soffre, mente che plasma e sogna, lotta per superare se stessa e rifiuta aridi astrattismi, perché il dovere dell’uomo non è scoprire Dio “nei piani alti e oziosi del cervello”, ma farlo scendere sulla terra.

Se questo è in parte il tracciato del pensiero di Kazantzakis, ciò che stupisce nell’Odissea è la vertiginosa bellezza dell’ordito poetico, sempre vigile e cangiante. Le parole si tendono, sbocciano i cromatismi, si rivelano inedite personificazioni, grappoli di similitudini, metafore e sinestesie. Leggere questo capolavoro significa abbandonarsi a una immediatezza poetica travolgente e immersiva. Gli accostamenti di immagini, mentre sembrano evocare il mondo, dicono altrimenti la realtà: le stelle sono spine impigliate nei capelli della notte e le tenebre vino speziato che inebria; il sole “sgoccia sulla terra come fico mielato” o “guerriero iracondo, si avventa a sfracellare il cielo”; la vita è “un ricamo rosso sulla veste della notte” e la morte porta un tagete all’orecchio. L’occhio poetico si sofferma sul dettaglio (le venature di un gioiello, le modulazioni di una voce, il tremito di una crisalide che si dischiude), come pure su scene collettive (giochi atletici, riti, feste e banchetti). Pittore di paesaggi, Kazantzakis dipinge la placida campagna, l’immensità del Nilo, la feroce aridità del deserto e il gelo del Polo Sud.

La traduzione di Crocetti, misurata e lucida, ha il pregio di fluire senza pesantezze o barocchismi. Fra le perle di bellezza, notevoli sono i grandiosi squarci lirici dei canti finali, che non potevano se non terminare nel mare: i flutti si placano in una distesa di madreperla e Ulisse, esploratore solitario, va alla deriva fra squali ed enormi banchi di pesci, assiste al fulgore dell’aurora australe, scala un iceberg. Ma l’ora fatale si avvicina e quando prende congedo dalla vita, una prodigiosa processione di ombre (i compagni, le donne amate, perfino l’amato cane Argo) si affolla intorno alla sua barca-feretro per l’addio. Gli attimi estremi si dilatano e ogni coordinata si dissolve: la mente diventa un universo sconfinato dove rifluiscono le gioie del mondo, e mentre le forze fisiche lo abbandonano, Ulisse si erge sulla prua e grida: “Avanti, amici, soffia propizia la brezza della Morte!”.

gilda.tentorio@unimi.it

G. Tentorio insegna letteratura neogreca all’Università Statale di Milano