Non una vita come tante. La biografia di Philip Roth

Philip Roth e la politica, la famiglia, i sogni, il sesso, il baseball e il cibo

di Paolo Bertinetti

Il titolo del libro di Benjamin Taylor, Siamo ancora qui (ed. orig. 2020, trad. dall’inglese di Nicola Manuppelli, pp.112, € 15, Nutrimenti, Roma 2021) è preso da una frase che Philip Roth pronunciò poco prima di morire, “Ogni volta che penso alla morte mi dico: ‘Adesso è adesso e siamo ancora qui’. E questo mi basta. Finché siamo vivi siamo immortali, no?”. Una bella frase, un bel titolo, che però avrebbe potuto suonare Ritratto dell’artista da vecchio. Benjamin Taylor aveva conosciuto Roth nel 1995, ma soltanto in seguito, forse non a caso dopo il divorzio di Roth da Claire Bloom consumatosi in quell’anno, cominciò a frequentarlo assiduamente, diventandone poi confidente e amico. I ricordi di Taylor riguardano quindi gli ultimi venti anni della vita di Roth; e numerosi sono legati ai gravi problemi di cuore che, già insorti molti anni prima, in particolare lo afflissero a partire dal 22 agosto 2012, quando una reazione di rigetto a uno dei farmaci che prendeva quasi ne causò la morte. Fu in quell’occasione che Roth gli disse “Basta libri”. Era l’annuncio del suo ritiro e che Nemesi, il suo trentaduesimo libro, pubblicato due anni prima, sarebbe stato l’ultimo. L’atteggiamento di Roth nei confronti della morte era di signorile presa d’atto, un modo per non farsene angosciare accettandone con distacco l’inevitabilità. Poco prima di morire disse a Taylor: “Sono stato a trovare il grande nemico. Gli ho girato attorno, gli ho parlato e ti assicuro che non c’è niente di cui avere paura”. Spesso i ricordi di Taylor riguardano le loro cene al ristorante (le ultime parole che Roth pronunciò, in stato di incoscienza, furono “Andiamo al Savoy”), le loro passeggiate, gli scambi di opinione seduti al bar o a casa di Roth. Le loro conversazioni, dice Taylor, riguardavano “ogni tipo di argomento, romanzi, politica, famiglia, sogni, sesso, baseball, cibo, ex-amici ed ex-amanti”. Ma l’argomento principale era la storia americana, quella storia che Roth indagò con acume, traendone un insegnamento per come interpretare il presente nei suoi grandi romanzi degli anni novanta del Novecento e di inizio nuovo millennio. E anche, fa giustamente notare Taylor, per intuire quello che sarebbe avvenuto nel prossimo futuro. Il complotto contro l’America, pubblicato nel 2004, è “una previsione agghiacciante” di come l’idea di America First degli anni trenta sarebbe diventata la colonna portante della campagna elettorale di Trump e della sua presidenza.

Parlavano di tutto. E quindi non potevano non parlare del Premio Nobel per la letteratura, che Roth, sempre tra i probabili vincitori e mai premiato, aveva battezzato il Premio-Chiunque-Tranne-Roth. Un giorno, racconta Taylor, mentre erano fermi davanti al monumento che campeggia in un parco di New York e che riporta i nomi dei Premi Nobel americani, una donna gli si avvicinò e gli disse: “Sta cercando il suo nome? Non c’è! E fuggì via come un razzo”. Oltre a molti gustosi aneddoti Siamo ancora qui offre anche alcuni squarci sull’idea che Roth aveva del suo lavoro di scrittore, a partire dal fatto che, come disse V. S. Naipaul a proposito della sua narrativa in gran parte incentrata sulla piccola comunità indiana della piccola isola caraibica di Trinidad, uno scrittore per essere universale deve innanzitutto essere locale. Per Roth la piccola comunità, come sappiamo, era il quartiere di Newark in cui era nato e cresciuto e che qui, in particolare nel capitolo intitolato Errori, viene ricordato come fosse il liquido amniotico in cui si è sviluppata la sua narrativa.

Taylor riporta una dichiarazione di Roth che vale la pena citare per il modo con cui fa chiarezza (se ce ne fosse bisogno) su quali erano le caratteristiche della sua invenzione romanzesca. “Quello che mi interessa sono gli individui intrappolati in situazioni particolari. La generalizzazione filosofica mi è completamente estranea. Io sono un analfabeta filosofico. Tutto il mio potere cerebrale ha a che fare con la specificità, le minuzie proliferanti della vita”. Non sapeva cosa farsene, diceva, di un’idea generale, neanche se gliel’avessero regalata. Questa sua sottolineatura della “specificità” la riproponeva a proposito dei personaggi femminili dei suoi romanzi. “Non ho mai scritto una parola sulle donne in generale”, leggiamo più avanti. “Le donne, ognuna nella sua singolarità, compaiono nei miei libri. Ma il genere femminile non c’è da nessuna parte”.

È anche vero che le singole figure femminili dei suoi romanzi sono la creazione di uno scrittore che è legittimo definire come misogino. Ma il discorso è sempre quello: un romanzo lo si giudica in base al suo valore letterario, non in base ai buoni o cattivi sentimenti che ne stanno alla base. Prendiamo, ad esempio, quell’episodio di La mia vita di uomo, un romanzo del 1976, in cui un abuso domestico è descritto in modo freddo, distaccato, indifferente rispetto alla sorte della vittima. La critica letteraria femminile (non solo quella femminista) si indignò. Comprensibilmente. Naturalmente nulla vieta che La mia vita di uomo possa essere giudicato un cattivo romanzo, ma tale giudizio non può discendere dall’indignazione per come quell’episodio è descritto. (Per la verità La mia vita di uomo non è un cattivo romanzo). In tempi relativamente recenti, nel 2011, Carmen Callil, giurata dell’International Booker Prize si dimise perché il premio venne assegnato a Philip Roth. Le ragioni addotte erano di carattere “politico” generale (perché dare di nuovo il premio a uno scrittore statunitense?) e di carattere letterario (Roth non è uno scrittore di ampio respiro – neppure avendo scritto, tra l’altro, Pastorale americana?). Ma la ragione di fondo traspariva comunque dal cuore della sua dichiarazione: il suo atteggiamento nei confronti delle donne era a dir poco sgradevole. Cosa vera, ma non pertinente.

Benjamin Taylor ricorda come avesse fatto enorme scalpore il libro di memorie di Claire Bloom, la sua seconda moglie, che lo descriveva come un uomo prepotente, tirchio, innamorato del successo e soprattutto violento nei confronti delle donne. E soprattutto ricorda come altrettanto scalpore avevano fatto le tumultuose vicende del rapporto tra lui e Maggie Martinson, la sua prima moglie. Taylor racconta che già in occasione di una delle prime cene Roth gli raccontò la storia di quel matrimonio. Nonostante lei fosse morta, il suo livore e la sua rabbia contro Maggie erano feroci. Si erano sposati all’inizio del 1959 dopo che lei aveva falsificato i risultati di un test di gravidanza pagando una donna incinta per fornirle un campione di urina. Maggie aveva già minacciato il suicidio; e quindi, oppresso dal senso di colpa, credendo alla menzogna della gravidanza, Roth accettò l’ennesima proposta di matrimonio di lei. Maggie gli spiegò inoltre che una volta diventata la Signora Roth sarebbe stata disposta ad abortire. Cosa che naturalmente fece senza problemi, dato che incinta non era. Andò al cinema e quando tornò a casa “raccontò quanto era stato orribile il suo presunto calvario”.

Su quelle due menzogne, imprecava Roth, si fondava il loro matrimonio. Lei stessa, qualche anno dopo, rivelò la verità. Anche se lui spesso la tradiva, anche se lei era stata una presenza decisiva, ispiratrice, nella sua attività di scrittore, Roth non volle mai perdonarla per quelle due decisive menzogne e per la sua possessività: la morte di lei, in un incidente d’auto, fu per lui “la liberazione”. La storia di questo matrimonio confluì nel romanzo La mia vita di uomo. Compreso il senso di liberazione, condiviso dal protagonista del libro e dall’autore. Siamo ancora qui ci aiuta a capire com’era Roth. E ancora di più dovrebbe aiutarci la biografia dovuta a Blake Bailey (che nel 2012 Roth stesso aveva scelto come suo biografo), un volumone di circa 900 pagine pubblicato dalla casa editrice Norton Philip Roth. The Biography (2021). Il libro era arrivato nelle librerie nei primi giorni di aprile, salutato da molti apprezzamenti e da qualche critica (troppo “archivistico”, troppi dati, esibiti per confermare la verità di fatti e circostanze, dicevano alcuni; troppo a favore delle posizioni di Roth, dicevano altri). Pochi giorni dopo il libro fu mandato al macero. Non per via delle recensioni critiche (le recensioni contano assai meno di quanto si vorrebbe), ma perché Bailey era stato accusato da alcune donne di comportamenti scorretti e, in un caso, di violenza sessuale (la Norton, zelantemente, ritirò anche un suo libro precedente).

Come sempre in questi casi, il primo dubbio è: perché soltanto adesso, quando l’accusato è diventato famoso, e magari in procinto di intascare un bel po’ di quattrini per i diritti d’autore? Immaginiamo comunque che Bailey sia colpevole delle accuse che gli sono state mosse. Perché mai un libro dovrebbe essere mandato al macero perché il suo autore è un poco di buono? Evidentemente per prudenza, per timore di essere oggetto di accuse in sintonia con il clima vigente in alcuni settori della cultura americana. È il clima che qualche tempo fa autorizzò una prestigiosa scuola di Filadelfia a “censurare” Huckleberry Finn di Twain perché nel romanzo compare la parola nigger ; e che di recente avrebbe suscitato curiose critiche al film della Disney perché il principe bacia Biancaneve addormentata e quindi non consenziente. Si tratta di scelte estreme e idiote, ma che hanno purtroppo il vantaggio di fare notizia; e di offrire così a Trump e ai suoi sostenitori efficaci argomenti a sostegno delle loro tesi. Come dire? È l’estremismo, malattia infantile del correttismo politico.

La Presidentessa del PEN Club dichiarò prontamente che la decisione della Norton era sbagliata. E la biografia ha trovato un nuovo editore, Skyhorse Publishing, che già ha pubblicato A proposito di niente, l’autobiografia di Woody Allen. In Italia, come era in programma, a pubblicarla sarà l’editore Einaudi: l’anno prossimo anche il lettore italiano avrà quindi la possibilità di provare a capire meglio chi era Philip Roth. Fermo restando che non ce n’è nessun bisogno per capire che è stato un gigante della letteratura americana del secondo Novecento.

paolo.bertinetti@unito.it

P. Bertinetti insegna letteratura inglese all’Università di Torino