Pat Barker – Il silenzio delle ragazze

Osservando il pelide macellaio

di Alessandro Iannucci

Pat Barker
Il silenzio delle ragazze
ed. orig. 2018, trad. dall’inglese di Carla Palmieri,
pp. 345, € 18,50,
Einaudi, Torino 2019

Euripide non è certo il drammaturgo più amato dagli antichi e dai moderni. Nietzsche gli imputava la morte della tragedia, ma già il suo contemporaneo Aristofane lo accusava di aver “rivestito di stracci” i grandi eroi della tradizione, di averne degradato etiche e valori alla banale quotidianità del reale. Eschilo, i cui drammi sono “pieni di Ares”, metteva in scena un mondo ancora epico, fremente del sordo rumore della battaglia, madido di terrore e compassioni per le scelte e gli errori di personaggi titanici. Euripide nelle Troiane adotta la prospettiva delle prigioniere per riscrivere la guerra di Troia, in radicale contrapposizione al modello di Omero. Pat Barker mostra analoga capacità di raccontare altro e sparigliare ogni possibile orizzonte di attesa, di frantumare la tradizione e irriderne i valori più saldi che ancora strutturano non tanto l’etica quanto l’immaginario narrativo contemporaneo (oggi nessuno considera la guerra fucina di eroismi e nobiltà ; eppure mai come oggi la narrazione della guerra è seducente e pervasiva nelle contemporanee epopee, da Star Wars al Trono di Spade fino a The Avengers). Così, senza indulgere a scritture di genere, Barker scrive un romanzo in cui il punto di vista femminile non è fine a se stesso, ma piuttosto funzionale all’irriverente rovesciamento della tradizione classica e dei suoi infingimenti, spesso fraintesi quali paradigmi per un universo etico che non esiste più. E, come Euripide, riveste degli stracci del quotidiano gli eroi omerici, li degrada nell’abbruttimento di una contemporaneità dove il reale prende il posto dell’ideale e della propaganda seduttiva del racconto.

Il romanzo inizia con lo sconfessare le “montagne di epiteti” del divino e luminoso Achille e smentire così l’ininterrotta catena di riscritture e ricezione dell’Iliade, dei tormenti dei traduttori tesi a ravvivarne la brillante e gloriosa luce. Achille non è nient’altro che un “macellaio”, uno che, per dirla in breve, “scopava in fretta, uccideva in fretta”. Questo l’effetto del valore guerriero sulle infinite vittime di guerra, i danni collaterali dell’eroismo, cui presta la sua voce femminile Briseide, la sua schiava che ne racconta in modo nuovo le vicende dall’osservatorio privilegiato di chi ne ha condiviso il giaciglio e sa bene che il bollente Achille russa, e oltre a un costante puzzo, misto di afrore e sangue, emana un “calore di fornace”. L’Iliade è intessuta di battaglie cruente, colpi mortali inferti nelle posizioni non protette dall’armatura: il sangue vi scorre, ma sempre nobilitato dall’enfasi eroica dell’onore e del prestigio riservato a semidei coraggiosi. Qui lo sguardo si pone piuttosto sulle ferite da cui sgorgano insieme “sangue e urina” e gli uomini colpiti sono descritti come il giovane fratello di Briseide che si dimena a terra “come un maiale infilzato”.

Le parole chiave dell’etica omerica, temi che riempiono intere biblioteche, sono degradate insieme ai valori che rappresentano: “Si riempivano la bocca di paroloni: onore, coraggio, lealtà, reputazione”, e qui Barker sembra riferirsi esplicitamente a timé e aristeia che producono il kleos, la buona e imperitura fama delle gesta eroiche. E le stesse canzoni di gesta con cui i valorosi guerrieri, ormai solo soldati e al più ufficiali, si dilettano alla sera dopo la battaglia sono “un crescendo di volgarità, concluso da un fragore di sghignazzi”.

Al posto del coraggio e dell’imperativo categorico di aristeuein, “essere sempre il migliore”, resta l’ambizione smisurata, specie di Achille, “follemente in competizione con tutti i suoi simili” al punto che di fronte a Priamo che si umilia e rischia tutto entrando di nascosto nel campo acheo per recuperare il cadavere di Ettore, il suo pensiero è solo questo: lui, sarebbe mai riuscito a osare tanto? “Saprei farlo anch’io? Potrei seguire il suo esempio?”.

Quello che resta dell’onore è spiegato con la lunga citazione iniziale da La macchia umana di Philip Roth: la letteratura europea inizia con una lite, una sorta di rissa da bar per una ragazza rapita durante la guerra. Così quando Briseide è consegnata ad Agamennone è consapevole che Achille non si sarebbe mai battuto per lei, ma solo per il suo onore. Alla fine mentre la portano via “Lui piangeva, non io”. E la seconda voce narrante che si alterna nel romanzo – il punto di vista dell’autrice che osserva Briseide osservare il suo padrone e carnefice – ci spiega finalmente la meschinità di questa rissa, non per onore ma per stupido orgoglio (“è questo che fa male, non la ragazza ma l’affronto, l’offesa al suo orgoglio”).

Lo svilimento dell’aura epico-eroica si realizza attraverso l’efficace ricorso a un espressionismo che abbassa lo stile e allo stesso tempo rende verosimile il racconto. “In poche ore il tanfo di corpi sudati, latte, escrementi di neonati e sangue mestruale divenne quasi intollerabile”: dalla baracca in cui sono rinchiuse le prigioniere tracima un “puzzo di escrementi” che potrebbe ferire le nari delicate di quanti siano convinti che i classici, Omero compreso, siano immateriali e inodori come le statue di Canova. “Il puzzo di sudore, sudore ancora fresco di giornata”, accompagna ossessivamente la narrazione di Briseide fino al suo culmine quando la puzza dei cessi, le immondizie, i ratti giganteschi e voraci invadono le baracche degli Achei e ne sfigurano quella rappresentazione nobile e regale che film rassicuranti come Troy hanno confermato nell’immaginario collettivo: e cioè che la guerra è bella anche se fa male, specie se fa male agli altri. Quello che Omero non può raccontare è reso esplicito da Barker. Nell’Iliade la guerra, origine e fonte di onore, è sempre esaltata ma comunque considerata anche nella sua terribile negatività, fatta di stragi, dolore, devastazione. Attraverso piccoli segnali, apparentemente poco significativi, come “ci allinearono davanti alle baracche per l’ispezione” che ricorda letterature e diari dei lager, Barker ricostruisce e riposiziona l’immaginario. Risulterà difficile leggere di nuovo il poema, anche per uno specialista, senza ripensare al lungo assedio di Troia, privo di una reale temporalità, come a una guerra di trincea che dura da nove anni, in cui i due fronti si sterminano e logorano senza posa e senza possibilità di successo, e ormai anche senza scopo: “Combattevano da nove anni sulla piana di Troia; la linea del fronte si spostava avanti e indietro, ma mai troppo lontano, perché nessun esercito riusciva ad aprirsi un varco”. In un “deserto di fango” i guerrieri ridotti a soldati compiono i consueti gesti feroci di una guerra. Così la nota espressione omerica di calcare con il piede per estrarre la lancia infitta nel corpo del nemico è riconsiderata nella sua brutalità, specie in riferimento ad Achille: “Con una sorta di studiata precisione… appoggiò un piede sul collo di mio fratello ed estrasse la lancia”, gesto feroce, più volte reiterato, in cui si riverbera la fredda indifferenza della vera barbarie. Allo stesso modo i Greci sono “competenti” nella “devastazione”. La sensibilità narrativa spinge Barker a ridurre la spedizione a un gruppo di “nemici radunati in banda”, che rispecchia le più recenti ipotesi sulle modalità di battaglia omerica. Predoni che compiono l’ennesima “scorreria”, predatori dell’“ennesima città distrutta”, così simili ai malvestiti e truculenti Argonauti, compagni di viaggio di Giàsone, nella Medea di Pasolini. Il bottino, il saccheggio che inizia quando non c’è più nessuno da uccidere, diventa “refurtiva”. E come in tutti i saccheggi la violenza festosa della vittoria si sfoga sulle donne. Briseide, all’inizio della storia, quando la sua città è distrutta ed è fatta prigioniera, vede una donna violentata più volte da un gruppo di uomini, distesa a fianco di due ragazzini agonizzanti: gli uomini fanno a turno e nell’attesa trincano caraffe di vino. Si distinguerà, in seguito, il violento Agamennone la cui libido di sopraffare è declinata nell’abitudine, ossessivamente richiamata con esibita “formularità” di preferire nell’abuso sessuale “l’ingresso sul retro”.

La routine della guerra è banalizzata come una sorta di lavoro, duro e faticoso: a fine giornata, dopo i massacri Achille va a fare un bagno freddo, per ristorarsi. E le schiave si trasformano in concubine, mogli con le pance piene di feti e neonati in braccio: tengono il focolare acceso nelle tende in attesa dei guerrieri-padroni, quasi mariti, nella quotidianità domestica della guerra. Briseide è il nuovo punto focale della narrazione, “la prima persona in tutto il campo a vedere il sacerdote”, e a innescare così la sequenza fondamentale della trama epica: l’empietà e l’abuso di potere di Agamennone, e la conseguente contesa con Achille. Achille, sempre al suo fianco, vestito degli stracci dell’umanità, soffre di un singolare complesso di Edipo da quando è stato abbandonato da bambino dalla madre, la dea Teti insofferente, come un personaggio di Moravia, alla vita coniugale, come emerge da alcuni rapidi flashback del racconto: “quando suo padre si allungava ad accarezzarle un braccio lei lo lasciava fare, non si tirava mai indietro; ma Achille, rannicchiato contro di lei, sentiva la violenza repressa del suo disgusto. Era una donna in collera, sua madre: in collera verso gli dèi che l’avevano condannata al talamo di un mortale”. E il nobile Peleo, l’incarnazione del padre eroico che impone al figlio di non disonorare la sua stirpe con il refrain dell’“essere sempre il migliore”, ha qui il ruolo di un babbo preoccupato che riempie il futuro eroe di “giocattoli costosi” per consolarlo, e infine gli affianca Patroclo perché i suoi compagni non lo considerano “a posto”, scherzano e lo prendono in giro come l’ultimo dei disadattati, e così, nella logica sottesa del romanzo, ne fomentano l’ansia da prestazione superiore, il bisogno continuo di un riconoscimento pubblico del proprio valore.

Teti è presenza costante nel romanzo: di sera, insieme alla madre, e seguito dallo sguardo singolarmente geloso della schiava e concubina Briseide, Achille si concede lunghi bagni nel mare. Questo è il suo segreto: “Solo di notte, mentre vaga tra il sonno e la veglia, Achille torna a immergersi nell’oscurità salmastra del ventre di sua madre, e il lungo errore di quella vita mortale è finalmente cancellato”. Così quando Briseide a sua volta si immerge nel mare e si presenta al rito della violenza sessuale ancora bagnata e odorosa di salsedine, improvvisamente Achille si accorge che non è una cosa o un insieme di parti anatomiche; per la prima volta le rivolge la parola, la possiede con un furore non meccanico e si stacca da lei con “la stessa espressione ebbra di un lattante satollo”. Nasce, inattesa tanto per il narratore-protagonista quanto per il pubblico, una sorta di “passione smisurata”. Dallo stesso disordine erotico e psicologico muove il singolare rapporto con Patroclo, amico e velatamente amante (come da antiche tradizioni greche); Patroclo è l’unico che può parlare direttamente con Achille, l’unico a potergli ribattere la propria visione e a spiegare, infine, il senso di tutta questa morte nel capriccio dell’eroe che continua a “fare il broncio”, come un ragazzino viziato.

Proprio perché riscrive un’altra Iliade, Barker non si limita ad alludere ma talora cita quasi alla lettera il testo originale e spesso riesce a dare voce a parole che la patina arcaica delle traduzioni ci ha fatto dimenticare: la strage di guerra è un macello, Achille è “imbrattato di sangue”, perifrasi che sembra tradurre miaiphonos, l’epiteto omerico di Ares. E in questo modo ci impedisce di dimenticare la potenza espressiva del greco, spesso ridotta ai frigidi ornamenti accessori delle lingue moderne. Anche il compito di Briseide è quello di non dimenticare: ed è questo il senso ultimo del romanzo che rispecchia e deforma l’antica funzione antica del kleos, la memoria delle antiche e gloriose imprese. Briseide vuole “ricordare”, nonostante gli inviti saggi a non farlo e il suo racconto restituisce al poema epico la possibilità di essere narrato ancora una volta. A un certo punto, improvvisamente, l’autore si rivolge al suo personaggio che riflette su Achille, “sembra che tu abbia passato molto tempo a osservarlo”, e rivela il suo metodo di riscrittura: leggere e rileggere testi ormai cristallizzati nella deriva monumentale dei “capolavori”, per dare loro la possibilità di essere raccontati di nuovo. Ed è forse questo il segreto di Pat Barker che rende affascinante l’idea di dare voce al silenzio delle ragazze.

alessandro.iannucci@unibo.it

A. Iannucci insegna lingua e letteratura greca all’Università di Bologna