Intervista a Patrizia Cavalli | Dall’archivio

Il tempo della valigia


Intervista a Patrizia Cavalli di Camilla Valletti
in occasione dell’uscita della raccolta Pigre divinità e pigra sorte (Einaudi)
dal numero di novembre 2006

Alcuni critici hanno notato, nelle sue prime raccolte, una mancanza di organicità interna, quasi un’assenza di struttura. Eppure, dal punto di vista dei temi centrali delle sua poesia, sembra esserci un continuo richiamo, mai disatteso. In Le mie poesie non cambieranno il mondo del 1974, “nel cesto della biancheria” lei riconosceva l’estate trascorsa nei pantaloni e nelle camicie leggere; in questa nuova raccolta “il tempo della valigia e del ritardo”, “il lusso sospeso”, il “margine ricco” s’incontrano tra una partenza e l’altra, quando il possibile si fa arrendevole. Come è cambiata, se è cambiata, la sua percezione del tempo?

In un certo senso non è cambiata affatto. Il tempo l’ho sempre considerato una tortura, era e rimane il mio nemico. Naturalmente penso al tempo che procede secondo quella sua assurda linea retta. Certo la mia lotta prima era più esteriore: non ubbidivo, ero sempre in ritardo e volevo decidere io il quando delle cose. Il mio sistema di attacco consisteva nel rallentarmi o nell’accelerarmi, gli stavo alle spalle o gli andavo avanti, lo facevo per istinto. La pigrizia e l’impazienza mi vengono da qui. Ho sempre avuto la sensazione di non fare mai in tempo a stare nel tempo. Non sono pronta, non abbiamo gli stessi ritmi. Ho fatto di tutto per confonderlo, per ostacolarlo, per abbatterlo. Ho usato trucchi e prepotenze, ma alla fine non sono riuscita né a vincerlo né a ignorarlo. C’è solo da sperare che arrivino certe miracolose occasioni dove il tempo naturalmente si sospende, perché solo allora si è davvero beati. Queste occasioni le fa nascere l’amore, il gioco, la poesia, e anche il fare le valige e chissà quante altre cose, che però non dipendono da noi. Comunque ho le mie rivalse, per esempio non metto la data alle poesie, le lascio galleggiare nel non tempo. Visto che la vita non riesce ad essere come mi piacerebbe che fosse, con tanti inizi e ritorni, con il prima che diventa il dopo e viceversa, allora tutto questo lo faccio nei miei libri. Tra un libro e l’altro, è strano, passano sempre almeno sette anni. È un tempo abbastanza lungo durante il quale possono avvenire molti cambiamenti, sia nella lingua che nel pensiero e avvengono appunto nel tempo. Ma quando sistemo le poesie per raccoglierle, il loro tempo oggettivo non esiste più, non m’interessa mostrarne l’evoluzione, vado piuttosto in cerca di un altro ordine, di un’altra temporalità per me più reale, che smentisca la cronologia e tenga conto invece di quelle intime leggi per cui una certa poesia cerca la vicinanza di un’altra o la fugge, secondo un movimento non lineare, ma direi ondeggiante, o anche circolare, dove tutto si mescola e sempre ricomincia, perché la poesia riabilita il passato e anticipa il futuro. Fare questo mi fa sentire sovrana rispetto al tempo, ma di una sovranità che ascolta e accoglie. Ci sono poesie per esempio che non sono pronte, non perché siano brutte o non finite, semplicemente non sono pronte per esserci. Poi a un certo punto si presentano, quasi dicessero “eccomi qua, è arrivato il momento, questo è il mio posto” e io, fossero pure state scritte venti anni fa, non dico di no, le prendo e le metto in compagnia. La prima raccolta però è una cosa a parte. Fu Elsa Morante a dare un ordine alle mie poesie mentre era a Torino a correggere le bozze de La Storia. Io ero via e fece tutto lei. Persino il titolo, efficacissimo, il miglior titolo di tutte le mie raccolte, lo trovò lei.

Che cosa pensa delle categorie che la critica usa per definirla e per antologizzarla?

Non ne sono del tutto informata. E poi dipende da quale critica. So soltanto che se qualcuno, scrivendo delle mie poesie, usa il termine “quotidiano” o “ironia”, io neanche finisco di leggerlo, perché di sicuro non ha capito niente. A meno che non intenda che scrivo poesie tutti i giorni, cosa non vera, che c’entro io con il quotidiano? Cosa c’entra la poesia in genere con il quotidiano? È quasi una contraddizione in termini. Si può mai pensare che qualcuno si metta a scrivere poesie per far esistere il quotidiano? Quello esiste già da solo. Le poesie, è risaputo, fanno esistere ciò che prima non c’era. Si tratta sempre di una rivelazione unica, fosse pure di un paio di scarpe. Se una poesia non riesce in questo, non è una poesia. Io scrivo perché mi stupisco, posso stupirmi di tutto, non ci sono gerarchie nel mio stupore. E poi io tendo al teatro e al gioco. Mi piace la recita. Solo da questo punto di vista mi si può attribuire un tono ironico. Ma l’ironia, come viene comunemente intesa, è un’attitudine di frigido distacco dove si sa già tutto in anticipo, mentre io non so niente fino a che non lo so, non conosco la distanza e non c’è mai nessuna parola che io non usi alla lettera. L’ironia non fa ridere, invece le mie poesie spesso fanno ridere, anch’io faccio ridere, ma a volte penso che forse si rida un po’ troppo. E se proprio ci tengono tanto alle definizioni, suggerisco di chiamarla poesia tragicomicodiagnostica.

Perché tante antologie di poesia contemporanea a fronte di un pubblico sempre più rarefatto?

Chi lo sa? Forse proprio per questo. Se il pubblico è distratto e gli acquirenti sono scarsi, si ricorre all’offerta speciale. L’antologia è un’offerta speciale dove hai una cinquantina di poeti al prezzo di uno. Basta il possesso, non bisogna mica leggerla. Non si tratta più di selezionare il meglio in modo che il lettore s’innamori e poi magari vada a comprarsi i libri dei singoli poeti. Ciò che conta è il pacchetto, non quello che contiene. E come per i festival di poesia. Ce ne è una tale quantità che verrebbe da credere che gli italiani amino la poesia sopra ogni altra cosa. Beh, non è vero niente. Gli acquirenti di antologie e i frequentatori di festival, se non sono già lettori, certo non lo diventano. Anzi! Credendo di avere tutto, di aver sentito e visto tutto (hanno persino visto l’autore in carne e ossa) la faccenda si esaurisce lì. Il fatto è che curatori e organizzatori sono diventati i veri protagonisti. Messi insieme, il loro numero forse supera persino quello dei poeti, i quali comunque accorrono tutti contenti delle loro particine mal pagate. E poi insomma non si capisce perché dovrebbe esserci questo gran pubblico per la poesia. Non c’è mai stato e, fosse pure il contrario, ha ragione di mostrarsi svogliato. Io stessa non riesco quasi a leggere i miei contemporanei. E molto raro che mi stupiscano. La poesia è diventata troppo autoreferenziale, troppo noiosa e insipida. A volte mi sforzo, faccio la diligente, ma con certe poesie è come se la lingua cancellasse se stessa, e persino le parole più semplici diventano opache. Per non parlare di quei libri che ti si chiudono da soli. E allora perché questa lagna? Se la poesia non ha successo, pazienza. Non bisogna andarle in soccorso. Ci pensi da sola a sopravvivere, se ci riesce. Basterebbe forse non darle troppo fastidio, fare meno rumore, tenere a freno la baraonda delle promozioni ufficiali dove si fa di tutto per impedire la lettura. Peccato, perché credo che la poesia potrebbe essere, tra tutti i generi letterari, quello che più si addice alla modernità: veloce, maneggevole, d’immediato possesso, fatto per la memoria.