Premio Megamark | Una domanda a Filippo Tapparelli

Dal 17 al 22 settembre avrà luogo la diciottesima edizione dei Dialoghi di Trani, durante la quale verrà premiato il vincitore del Premio Megamark. Per avvicinarci alla finale, la redazione del Premio ha preparato una domanda ai cinque autori coinvolti. La recensione in calce è a cura dell’Indice dei Libri del Mese.

La storia è piena di libri rifiutati dalle case editrici. Qual è stata la tua reazione quanto hai pubblicato il tuo primo romanzo?

L’Inverno di Giona è stato nel limbo delle case editrici per cinque anni prima di approdare al Premio Calvino. Quando mi hanno comunicato prima che era nei finalisti e poi, a Torino, che Giona aveva vinto, la mia prima reazione è stata di totale incredulità. Un libro ignorato da tutte le case editrici a cui era stato inviato si ritrovava ad aver vinto un premio così bello e a essere conteso tra varie major dell’editoria. L’incredulità e lo stupore non mi hanno abbandonato da quel giorno. A tutt’oggi mi ritrovo a guardare la mia copia, che riposa su uno scaffale insieme a tutti i libri che negli anni si sono accumulati in biblioteca, e chiedermi se non si tratti di un immenso scherzo.


Filippo Tapparelli – L’inverno di Giona

recensione di Anna Chiarloni

Il vincitore del Premio Calvino 2019 si è imposto con un romanzo che scava nella psiche di un adolescente con perizia di scrittura insolita in un esordiente. Un racconto a chiave, capace di mettere in luce le complesse pulsioni affettive che presiedono la vita familiare nel passaggio verso l’età adulta. “Non ho ricordi di quando ero piccolo, non ne ho nemmeno uno. Eppure devo essere stato bambino anch’io, ma di quegli anni non mi è rimasto dentro niente”. Apre così il suo racconto Giona, un adolescente confinato in un paese di montagna dove vive col nonno Alvise, un vecchio dispotico che gli caccia l’obbedienza in corpo a suon di botte perché “solo col dolore” s’impara la vita. Un rapporto che riproduce tutta la durezza di esistenze incastonate come sassi tra i monti, rassegnate alla legge di una natura aspra e cupa. Una comunità chiusa come un maso, un “branco” prono al vecchio Alvise, che sotterra abuso e violenza nel silenzio. Ma l’adolescenza è l’età della rivolta. Battuto a sangue, in fuga disperata da questo tempo sospeso, Giona fugge nella notte. La pioggia gli lava le ferite e la solitudine libera i primi ricordi di un passato rimosso. Con una repentina crasi temporale entriamo nel triangolo originario della famiglia: padre, madre e bimbo in armoniosa scampagnata, a casa sono in attesa altri nonni, con latte caldo e biscotti alla vaniglia.

Ma l’idillio di quell’infanzia remota vacilla nella memoria, inciampa nella rievocazione di un primo trauma: il piccolo Giona si perde nel verde e il panico lo travolge fino all’incoscienza. Sono pagine intense di ansia affannata che suscitano in chi legge, tanto più se memore di certa cronaca nera, un’empatia genitoriale riflessa: perché chi non ha vissuto l’incubo di smarrire la propria creatura? E di chi sono quelle “braccia di ferro” che sollevano il corpo del bimbo svenuto nel bosco? E ancora: come sono scomparsi i genitori? Abilmente disseminato di indizi, con una struttura narrativa ibrida che rimanda al giallo psicanalitico, dunque a una verità ambigua e proliferante di voci interiori, il romanzo s’inoltra nel vasto territorio dell’inconscio, attraverso i fantasmi di una perdita. Nella dialettica del montaggio i piani temporali ruotano attorno a una ferita irreparabile: l’assenza della figura materna. Tapparelli mette in scena la nostalgia infantile, o meglio il bisogno primario di contatto simbiotico col corpo materno, in una pagina magistrale. Nella baita del nonno Alvise c’è una scatola proibita, contiene una vecchia fotografia sbiadita che Giona riesce a carpire – è la madre con lui bambino: “L’avvicino al volto, chiudo gli occhi e l’annuso (…) fino a quando non diventa profumo ed entra nelle mie narici. Estraggo la lingua che si fa amara quando tocca l’immagine. Premo gli occhi contro la fotografia, la strofino sulle palpebre e lascio che il fruscio della carta mi riempia le orecchie. La faccio mia così, per tutti gli anni in cui non ho potuto toccarla, vederla, annusarla, leccarla. Mi lascio assorbire da lei, mentre sento le gambe cedere e la coscienza fondersi con la donna e il bambino ritratti nella foto”.

Le immagini che seguono, il tremito, le sensazioni olfattive di Giona, lo sgretolarsi della figura femminile annunciano un rito di separazione. E sono un’agnizione del finale, che non sveleremo. Ormai inarrestabile, il flusso dei ricordi riconduce Giona alla figura dominante, quella paterna: “Della donna e del bambino non rimane nulla. Davanti a me resta solo l’uomo”. Si erge alto, questo padre, ha sapore di ferro, e “due occhi che urlano disprezzo”. Nell’anamnesi del suo protagonista Tapparelli addiziona qui un secondo trauma che ancora segna e punge incoercibile la coscienza del ragazzo. Nell’età della cieca fiducia verso i genitori, Giona ha infatti patito un doppio tradimento. L’ambiente evocato è quello scolastico, ossia del primo confronto con la socialità e le sue regole. Ingiustamente accusato di un furto in classe, il padre non crede alla sua innocenza. Di qui una sofferenza psichica ancora incisa nei lineamenti del ragazzo. La funzione paterna del limite e della legge, deputata secondo Freud a condurre il figlio al “piano della realtà”, a sorreggerlo nella verità dei fatti, viene meno al suo compito di guida e di tutela. Di più, il padre lo schiaffeggia di fronte ai compagni, lo cancella col suo disprezzo, lo ripudia come “difettato”. Per il ragazzo è un peso insopportabile, un’umiliazione bruciante, destinata a scatenare un caos confusivo dalle conseguenze fatali: “Non ti ho mai conosciuto davvero, padre. Non sono tue le mani che mi spezzano la carne quando il vecchio mi punisce. Non è tuo il volto che mi tocco quando il freddo d’autunno mi congela le guance. Non sono volto, non sono labbra, non sono dita, denti, né altro. Io sono figlio del niente, senza padre né madre. Ma lei, a differenza tua, me la ricordo a ogni colpo che arriva, perché è il suo nome che invoco nella gola quando il male diventa più grande di me. Tu invece non sei mai esistito. Uomo sparito, fantasma di un fantasma. Ricordo la tua assenza quando invece vorrei poter dimenticare la tua presenza inconsistente. Sei vecchio come Alvise. Non ti riconosco eppure sei me centomila volte al giorno. Le tue schegge non sono dolci, sono vetriolo che scende nello stomaco. Bruciano tutto quello che trovano, anche le grida”.

Altre figure si affacciano nel testo, brevi squarci di luce “tra le pieghe del vento”: Norina, la bimba orfana dalla voce di ghiaia e di sabbia, capace di sospendere la tragedia con un grido, è apparizione fugace di gioco e salvezza; l’affettuosa perpetua che accoglie Giona nella chiesa dove esausto l’adolescente trova rifugio come in un grembo materno – figure che tuttavia restano ai margini del campo visivo, negli angoli di una narrazione progressivamente sempre più visionaria, in corsa verso il ribaltamento finale. Col tredicesimo capitolo il cerchio si chiude. Tapparelli sterza bruscamente, cambiando voce, tempo e prospettiva. Sono passati quindici anni, Giona è in manicomio, nell’asciutta cronaca condotta da una voce autoriale apprendiamo il suo vero nome: Luca. L’uomo è reo confesso di omicidio ma qualcosa non torna nella sua cartella clinica. Un caso di dissimulazione? Oppure la sua è la storia di un adolescente che ha rimosso una verità impronunciabile rifugiandosi in una realtà parallela? Col doppio finale a sorpresa il romanzo di Tapparelli si fa interlocutore di una ricerca dalle radici mitiche, ma sempre attuale, sul tempestoso territorio dell’età adolescenziale.