Simone de Beauvoir e Violette Leduc: censure parallele e complesse

Amori femminili tra audacia e controllo

di Gabriella Bosco

Rimasto inedito per sessantasei anni, Le inseparabili di Simone de Beauvoir è stato ora pubblicato per volontà della figlia adottiva, in Francia dalle éditions de L’Herne e contemporaneamente in diciassette paesi data l’eccezionalità dell’evento. Per l’Italia da Ponte alle Grazie, nell’attenta traduzione di Isabella Mattazzi (pp. 208, € 15, Milano). E con tempistica molto opportuna, a ruota viene anche ripresentato, da Neri Pozza, fornendo l’opportunità preziosa di leggere i due testi uno alla luce dell’altro, quel Thérèse e Isabelle di Violette Leduc (pp.128, € 16, Vicenza), anch’esso storia di un amore tra due giovani donne, anch’esso non pubblicato all’epoca, anch’esso censurato, anch’esso riposto in un cassetto da Simone de Beauvoir.

Nei mesi in cui, dopo l’annuncio della pubblicazione, si attendeva l’uscita delle Inseparabili con inevitabile curiosità, si è letto che Simone de Beauvoir aveva scritto nel 1954 un racconto lungo dedicato a un’amicizia femminile, trasposizione narrativa del proprio legame con Zaza, anzi del proprio amore per l’amica Zaza morta tragicamente di encefalite virale a 22 anni, ma che poi aveva rinunciato all’idea di pubblicarlo essenzialmente perché sconsigliata da Sartre. Analoga censura maschile viene da sempre enunciata per Thérèse e Isabelle, scritto da Violette Leduc e consegnato a Simone de Beauvoir in quello stesso anno, il 1954, racconto lungo sull’amore tra due amiche, trasposizione narrativa di un’esperienza omosessuale realmente vissuta da Violette, capitolo iniziale di un romanzo che avrebbe avuto per titolo Ravages. A decidere di non pubblicare quelle prime 150 pagine, a farle stralciare dal romanzo, furono – si è sempre letto – Raymond Queneau e Jacques Lemarchand, membri del comitato di lettura di Gallimard, la casa editrice di Sartre e de Beauvoir. Avevano trovato esageratamente esplicite quelle pagine tanto da dichiararle impresentabili. Di Queneau, scrittore geniale forse anche per quello, si conosce il trauma legato all’idea del corpo femminile nell’atto carnale: non è difficile immaginare come sia rimasto impressionato a leggere le pagine di Violette. Lemarchand si era adeguato, invocando lo scandalo che la pubblicazione integrale avrebbe comportato, scandalo – aveva convenuto – assolutamente da evitare. Si è sempre dato a intendere che, dall’intervento censorio, Simone de Beauvoir si fosse tenuta in disparte, anzi che avesse cercato di evitarlo.

La storia editoriale del testo di Violette Leduc è assai complessa, vale la pena ripercorrerla. Il romanzo Ravages uscì dunque nel 1954, decapitato della scandalosa parte iniziale. La quale, come risarcimento per l’autrice, che della scrittura aveva fatto la sua ragione di vita e da quel rifiuto era rimasta schiantata, venne allora pubblicata in edizione di lusso dall’amico mecenate, il collezionista Jacques Guérin cui Thérèse e Isabelle è dedicato – ventotto copie da bibliofili – a partire da un falso manoscritto, ovvero un manoscritto creato appositamente da Violette Leduc, con varianti rispetto alla versione consegnata a Simone de Beauvoir, la quale già aveva subito correzioni e modifiche prima ancora di venire sottoposta all’editore che ne avrebbe decretato la censura. Dieci anni dopo, nel 1964, presentato e supportato da Simone de Beauvoir, uscì poi La bastarda, il romanzo autobiografico di Violette Leduc che fece conoscere la sua dolorosa storia all’estero – figlia illegittima di una domestica, segnata dalla mancanza d’amore e dal senso di colpa per essere nata – romanzo nel cui terzo capitolo, dietro suggerimento della stessa de Beauvoir, Violette aveva inserito una trentina di pagine tratte da Thérèse e Isabelle, ma modificate e tagliate. La bastarda fu un successo, la tanto attesa consacrazione per Violette. Sull’onda di quel successo, Thérèse e Isabelle venne finalmente pubblicato da Gallimard in edizione a sé. Ma si trattava anche quella volta di una versione incompleta, e ampiamente rimaneggiata dalla stessa Leduc. Solo nel 2000 il testo originale, recuperato, vide la luce. Edita in Italia da Baldini e Castoldi una prima volta nel 2002, nella traduzione di Adriano Spatola e Laura Cimenti con postfazione e note del biografo e massimo studioso di Violette Leduc, Carlo Jansiti, è l’edizione che ripropone adesso Neri Pozza mantenendo la postfazione di Jansiti, con l’aggiunta di un’introduzione scritta ad hoc da Sandra Petrignani (densa introduzione, struggente la chiusa).

Di questa versione originaria e integrale, Simone de Beauvoir aveva scritto a Nelson Algren, il suo famoso amante americano: “Descrive nei dettagli come una ragazza ne svergina un’altra, e quello che combinano con le dita e quello che capita nei loro sessi, un sacco di atroci smaneggiamenti che entrambe s’inventano con sangue, urina e via discorrendo”. Poi però, nel 1964, nell’introduzione firmata per La bâtarde, gesto benevolo da parte della protettrice nei confronti della protetta, Simone de Beauvoir avrebbe scritto che di Violette Leduc apprezzava in particolare “l’audacia controllata”, “una delle sue qualità più evidenti”. Un controllo ben poco volontario se, a posteriori, Violette Leduc ebbe a definire le sforbiciate inferte alle sue pagine “un assassinio”.

Alla luce di tutto ciò, Le inseparabili diventa ancora più interessante. Anche questo testo che raccontava il sentimento tra due amiche sotto forma di finzione narrativa, ovvero con nomi fittizi per le due protagoniste – Sylvie al posto di Simone e Andrée al posto di Zaza –, venne in seguito in parte recuperato da Simone de Beauvoir, nelle Memorie di una ragazza perbene, nel 1958. Ma in versione autobiografica, con i nomi veri, senza elaborare i fatti. Là invece, nel racconto lungo rimasto sinora inedito, Simone de Beauvoir aveva voluto tentare l’esperimento della scrittura dimostrativa. Andrée/Zaza, l’amica amata al parossismo, risultava vittima di una famiglia borghese e cattolica che le aveva tarpato le ali provocando, come conseguenza, quella morte precoce, sopraggiunta per il dolore di non esser riuscita a ribellarsi. Dalla sofferenza indicibile di Sylvie/Simone, era scaturita la spinta per mettere in atto la propria di ribellione, anche per riscattare il sacrificio dell’amica.

Agli antipodi di quella leduchiana, questa sì, è una scrittura estremamente controllata. Racconta anch’essa di un amore estremo, ma lo fa in termini composti. L’abbandono, il trasporto, il contatto fisico, il desiderio di darsi che si leggono tra le righe, e che pervadono in tutta evidenza Sylvie/Simone, restano non detti. Sempre nella sua introduzione alla Bâtarde, Simone de Beauvoir avrebbe scritto di Violette Leduc: “Lei non cerca di piacere, non piace e fa persino paura”. E avrebbe aggiunto, proprio a proposito di Thérèse e Isabelle, che in quel testo Violette “mette in scena i suoi fantasmi”. Fantasmi che spaventano Simone de Beauvoir.

Nelle Inseparabili, Andrée/Zaza è ritratta come una martire. La famiglia, la borghesia cattolica, la madre tanto amata ma ferrea, l’hanno uccisa. L’impossibilità per lei di uscire dal carcere familiare, la perdita della vita come prezzo pagato a un’ideologia tanto chiusa da diventare assassina, vanno dimostrate. Simone de Beauvoir costruisce allora l’episodio autolesionistico. Andrée/Zaza arriva a darsi un colpo d’ascia su un piede per sottrarsi a un’ennesima corvée familiare. Sylvie/Simone soffre enormemente per il male che l’altra patisce, ma insieme è appagata dal coraggio che ha avuto e di cui sa che mai sarebbe stata capace. Sia nell’edizione francese che in quella italiana del testo sono riportate in appendice – insieme a un dossier fotografico di Simone e Zaza bambine, adolescenti e poi giovani donne – alcune lettere che le due si scambiarono realmente. La finzione viene cioè documentata. Ci sono le riproduzioni delle lettere autografe e in calce il testo trascritto. Zaza in una sua lettera racconta in effetti di essersi ferita per evitare un’escursione con la famiglia. Scrive però di essersi data su un piede “un coup de bêche”, un colpo di vanga, non “un coup de hache”. La trascrizione in calce, nell’edizione francese cui quella italiana non può che accodarsi, riporta tuttavia ascia al posto di vanga. Se la povera Zaza si fosse data veramente un colpo d’ascia su un piede se lo sarebbe mozzato, non sarebbero bastati, come racconta nella lettera all’amica, alcuni giorni di riposo per guarire. Il dettaglio è interessante: Simone ha letto male nella lettera di Zaza, ha letto “hache” al posto di “bêche”, vedendo in lei il coraggio della martire, o ha letto bene ma ha trasformato nel racconto la vanga in ascia per dimostrare la forza del suo carattere? Quel che è certo è che Simone de Beauvoir infligge all’amatissima amica, nella trasposizione del racconto, un’automutilazione. Ne scaturisce molto sangue. Il sangue che lei non può vedere. E che può averla indotta a chiudere il proprio racconto in un cassetto, come a chiudere in un altro cassetto il sangue sessuale di Thérèse e Isabelle.

gabriella.bosco@unito.it

G. Bosco insegna letteratura francese all’Università di Torino