Siamo stati attesi sulla terra | Intervista a Giorgio Fontana

Intervista a Giorgio Fontana di Gabriella Dal Lago e Virginia Giustetto

Quali operazioni preliminari sono necessarie per scrivere un romanzo che abbraccia quasi cento anni di storia?

La scrittura di Prima di noi è durata dieci anni, durante i quali si sono avvicendati studio, documentazione, stesure e riscritture. Fin da subito conoscevo l’inizio della storia e la sua conclusione. Il lampo per questo romanzo è la storia di mio bisnonno, che come Maurizio Sartori è stato un doppio disertore: prima è scappato dalla guerra, poi dalla donna che aveva messo incinta, infine è stato costretto a tornare. Mi sembrava che un personaggio che tiene insieme una stortura così grande e un forte anelito alla libertà fosse il punto di partenza migliore per il racconto di un secolo come il Novecento.

 

Quanto lavoro di ricerca storica c’è dietro?

Ho lavorato a imbuto: per ogni parte storica mi sono documentato ad ampio raggio, per poi affinare. Ho guardato molto alla storia sociale, alla memorialistica, alle lettere, e ho raccolto diverse testimonianze, a cominciare da quella di mio nonno. Anche la ricerca di materiale fotografico è stata fondamentale; per esempio, per raccontare il bombardamento di Udine alla fine di dicembre 1944 ho recuperato alcune foto della città, prendendo appunti che mi permettessero di descrivere esattamente l’aspetto delle case crollate e delle macerie urbane. Quale sia la proporzione tra la ricerca fatta e quella che emerge, questo è indicibile: ogni tanto per scrivere mezza pagina ho letto cinque libri.

Nel raccontare un secolo di storia, hai scelto di focalizzarti su alcuni intervalli temporali, lasciandone da parte altri. Quali sono le ragioni alla base di questa scelta?

Ragioni narrative si intrecciano ad altre di tipo storico. In alcuni casi le scelte sono dettate dagli equilibri degli undici personaggi, di cui mi interessava raccontare tutte le età. Ci sono parti in cui i personaggi sono catturati nella loro infanzia, altre in cui li conosciamo direttamente nell’età adulta o li accompagniamo fino alla vecchiaia. Ma la scelta delle sezioni temporali dipende anche da fascinazioni personali: il movimento anarchico, le lotte operaie a cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta. In ogni caso i principi chiave sottesi al romanzo sono due: l’esattezza nella ricostruzione storica e una buona orchestrazione dei vari temi e personaggi di cui dovevo tener conto.

A volte si ha l’impressione che sia lo stesso passo narrativo a cambiare. Ci sono parti molto distese che raccontano appena qualche anno, e altre decisamente più scandite che coprono archi narrativi più lunghi.

La gestione del tempo narrativo è una questione su cui ho riflettuto parecchio. Avevo in mente un’impostazione abbastanza classica – mi ritengo un romanziere molto classicheggiante, il mio alveo culturale sono la narrativa mitteleuropea di primo Novecento e certa narrativa nordamericana – ma allo stesso tempo volevo inserire variazioni più moderne. Così, sulla base di necessità narrative ed extranarrative, a volte il tempo si contrae, a volte si distende. Il flusso narrativo è simile a un percorso carsico: i diversi fili scorrono in superficie e poi tornano a inabissarsi. A volte sembrano perdersi, poi vengono ripresi.

Hai scelto di mettere in scena vicende di donne e uomini che difficilmente definiremmo personaggi esemplari. Ci parli delle dinamiche attraverso cui storia collettiva e storia dei Sartori si intrecciano?

Alla base del romanzo c’è un’idea che è emersa progressivamente fino a diventare quasi un principio intrinseco: il tipo di sguardo con cui i personaggi osservano i fatti storici e vi prendono parte. Il loro punto di vista non è mai quello di coloro che stanno in prima linea, al contrario è uno sguardo sghembo, marginale. La prima guerra mondiale filtra attraverso gli occhi di un disertore, gli anni trenta sono raccontati da adolescenti o adulti della classe subalterna; la seconda guerra mondiale è la storia di una madre rimasta sola e dei suoi tre figli, un imboscato, un ragazzo che lambisce il movimento partigiano e un soldato prigioniero nei campi nordafricani. Fino a giungere agli anni settanta, raccontati da Eloisa, dunque dal punto di vista del movimento anarchico, mentre gli altri personaggi della stessa generazione non mostrano grandi interesse per la politica e cercano di cavarsela come possono nella loro vita quotidiana.

Restiamo sullo sguardo sghembo. In un anno cruciale come il Settantotto, cui dedichi non a caso un’intera parte, hai scelto di non focalizzarti sul caso Moro ma mettere al centro un evento minore, un atto politico di gambizzazione in una fabbrica dell’hinterland milanese.

La parte sesta è stata molto delicata, mi serviva per traghettare i primi due terzi del romanzo verso il terzo finale, in cui la storia con la s maiuscola lentamente evapora, per motivi intrinsecamente fattuali e motivi intimi legati ai singoli personaggi. Il ’78 mi sembrava l’anno ideale. Siamo ad aprile, Moro è già stato rapito e il paese probabilmente non sta parlando d’altro. Tuttavia, anche nel racconto di questo anno, volevo giocarmela facendo una finta: lasciando, per così dire, il titolo grosso altrove e occupandomi dell’articolo in terza pagina. Nel raccontare l’atto politico di un piccolo gruppo armato di matrice libertaria e il modo in cui i diversi personaggi vengono a conoscenza della notizia, restandone in molti casi indifferenti, si capisce che qualcosa è cambiato. Nei miei intenti questa parte deve funzionare come una diga, che fa passare le acque della narrazione filtrandole in maniera differente. È anche l’unico caso in cui la storia si muove attorno a un unico giorno danzandovi intorno con brevi flashback e flashforward: un modo per smuovere il lettore in un momento chiave, di passaggio.

Nello stesso libro convivono lingue e stili molto diversi tra loro. In questo senso il confronto tra l’incipit della prima e dell’ultima sezione è emblematico. Puoi parlarci della ricerca linguistica e sintattica in Prima di noi

Nella scrittura di questo romanzo cercavo una lingua che garantisse la compattezza stilistica e allo stesso tempo la pluralità di anime, di lingue, di voci e di tempi. Non avendo scelto un narratore onnisciente il problema si poneva in termini piuttosto decisivi. A questo bisogna aggiungere un fatto biografico: il libro è stato scritto in un arco di tempo lungo, in cui io sono cambiato come scrittore; così ho dovuto uniformarlo anche da questo punto di vista. Inoltre, mi piaceva l’idea che non fosse soltanto la storia a muoversi lentamente da parte a parte, ma anche la lingua. All’inizio, ad esempio, volevo che emergesse un tono da narrazione orale, antica, a tratti favolistica e popolare. Così si spiegano anche certe scelte narrative che giocano coi limiti del realismo: la figura del cjalcjut è plausibile all’inizio del romanzo ma sarebbe implausibile dopo, perché il mondo che nutre una fede nel soprannaturale ha lasciato il posto a un mondo laico. Il gioco dunque è stato quello di creare piccoli smottamenti che accompagnassero il lettore in un lento e graduale trapasso della lingua da un punto a un altro, pur senza perdere la compattezza di fondo.

L’espressione “prima di loro”, riformulazione del titolo del romanzo, compare nell’ultima parte e dialoga con il verso di Rilke posto in epigrafe, “questo, fanciulla, fu prima di te”. In questo slittamento di pronomi, chi sono i “noi” del titolo?

Io credo che nel libro ci siano due vettori temporali: il primo è quello narrativo, che va dal 1917 al 2012, il più evidente. Poi c’è il vettore un po’ meno ovvio, quello con cui il titolo gioca, introdotto dall’epigrafe, per cui è possibile pensare che il romanzo sia stato scritto come se Letizia alla fine si voltasse e recuperasse con lo sguardo tutta la storia passata. La sua opera di riscatto ha un significato che si riverbera all’indietro e arriva a toccare tutti i Sartori. Nella seconda delle Tesi di filosofia della storia Benjamin dice: “c’è un’intesa segreta tra le generazioni passate e la nostra: noi siamo stati attesi sulla terra”. Ho provato a reinterpretare quest’idea da un punto di vista letterario, raccontare cioè che abbiamo una responsabilità non solo nei confronti del futuro ma anche nei confronti del passato, nell’essere all’altezza degli sforzi di chi è venuto prima di noi. I due vettori si incontrano, entrano in cortocircuito e da qui scaturisce il romanzo nella sua compiutezza.

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G. Dal Lago e V. Giustetto sono italianiste