Sul Ponte diVersi | Editoriale III, Franca Mancinelli

Sul Ponte diVersi

Il 15 maggio abbiamo concluso il nostro secondo ciclo di incontri della rassegna “Sul Ponte diVersi. I poeti d’oggi” con Franca Mancinelli, classe 1981, marchigiana, appassionata nuotatrice di mare e di fiume e viaggiatrice assorta (prima di venire a Torino, è stata due mesi in India, dove è rimasta molto segnata dal modo in cui le donne mettono il sari, perché, come ci ha detto, risponde a una logica opposta a quella occidentale: il corpo non subisce il vestito, ma ne è avvolto dolcemente, con cura sacrale). Abbiamo fatto balzi e tuffi da varie opere, raccogliendo alcune ricorrenze tematiche e formali, come quelle che riguardano un habitus, una ritualità, il nuoto.

In un componimento di Mala Kruna (Manni, 2007) l’autrice stessa paragona l’attività del nuotatore a quella del poeta: così come il primo, per apparire fluido e disinvolto, non deve fare altro che abbandonarsi alla ripetitività dei gesti senza forzare il movimento con inopportuni entusiasmi o ansie da cronometro, così il secondo deve acconsentire a “quel rito di obbedienza”, imposto dalla scrittura attraverso l’ascolto di codici e misure, grazie ai quali le passioni vengono addomesticate di dentro ad una forma più compiuta. La tradizione allora diventa, come la fine della vasca per il nuotatore, la sponda con cui il poeta si deve confrontare e misurare per ottenere un “proprio stile”.

Tale convinzione appare anche in un altro testo in cui Macinelli afferma che un libro di versi può risultare significativo solo se nasce dall’ascolto delle voci che lo hanno preceduto, dalla considerazione dei tentativi che lo hanno in un certo senso preparato.

 Cospargiti un po’ di farina sul palmo delle mani, gli zigomi, la fronte. Così iniziano le guerre e i passaggi di stato.  Prendi una padella, rigala d’olio.
Allineato ai punti cardinali, in possesso di tutte le tue forze, concentrati: rompi un uovo.

In una ritualità diversa, domestica e quotidiana, eppure complementare a quella già accennata, prende forma anche la poesia di Libretto di transito (Amos, 2018). Le sagome delle brevi sequenze che compongono il libro assumono i contorni di gesti precisi e calibrati, di «gesti a una destinazione sola» che vengono preparati con cura e devozione: preparare una valigia, innaffiare un campo, reggere una brocca sulla nuca, restare in piedi sui tacchi, ecc.

Il rito ha a che fare con il ritorno, e più precisamente con un viaggio di ritorno, con un attraversamento, con il tentativo più volte cercato di riempire una faglia con ciò che è fuoriuscito da essa: «To fill a Gap / insert the Thing that caused it» recita l’esergo di Emily Dickinson. Ma per quanto possa essere preparato, ogni gesto ha in sé una fatalità, una preordinazione, un istinto capace di richiamare l’io a una sorta di unità originaria con ciò che lo circonda, a una metamorfosi:

Ti chini verso una pozza di fango. Porti le mani sul viso e lo fai scuro. Resta l’incavo degli occhi. Dalla punta delle dita alle spalle ti accarezza la terra. Il bianco dei denti chiama le ossa sommerse. Un grande animale marino dorme sotto la sabbia. Il rito è quasi concluso.

Un altro tema emerso durante l’incontro è quello della ‘scomodità’, che ricorre lungo tutto Libretto di transito, e riavvicina, se ben interrogato, alla stessa dimensione fin qui esplorata. I segnali in cui si declina questa ‘scomodità’ sono il «confezionarsi» e il «vestirsi bene», o la «taglia esatta della pena» e i «pochi centimetri di tacchi»; o ancora l’indossare e il calzare «ogni mattina forzando […] un’altra taglia». Laddove ‘taglia’ fa coppia con ‘pena’, i ‘tacchi’ con la rigidità di chi è fuori luogo, e gli ‘abiti’ con ‘forzatura’ e obbligo; coppie che rivelano un principio decisivo: entrare nel mondo, e peggio ancora sostarvi, è spinoso e sanzionatorio ed equivale a essere sotto tiro.

Sottesa al discorso, quindi, è l’impossibilità di armonizzare l’io con l’esterno. Ma il ‘mondo’ non è la ‘natura’; sono due sfere separate in Mancinelli: se il primo ha a che fare con la società e la Storia, la seconda rappresenta la materialità pànica, nelle sue tipiche forme arboree, acquatiche e vegetali. È il ‘mondo’ sociale la fonte della ‘scomodità’, perché acuisce l’isolamento dell’io con meccaniche dure di approvazione e rifiuto, e non la ‘natura’ alla quale, al contrario, l’io di questa poesia tende nella volontà di realizzare il suo scopo metamorfico: uscire da sé e fondersi con il tutto, come una pietra qualsiasi nel magma dell’eternità.

Potete seguirci sulla pagina Sul Ponte diVersi. I poeti d’oggi.