Tanizaki Jun’ichirō – Nero su bianco

Mi interessa solo la finzione

di Luisa Bienati

Tanizaki Jun’ichirō
NERO SU BIANCO
ed.orig. 1929, trad. dal giapponese di Gianluca Coci,
pp. 265, € 17,
Neri Pozza, Vicenza 2019

Una sorpresa per il lettore italiano, questo romanzo di Tanizaki. Nero su bianco faceva parte di una raccolta uscita nel 1929 con il titolo Jun’ichirō hanzai shōsetsu shū (Raccolta di romanzi del crimine di Jun’ichirō), un genere a cui non è forse usuale associare il nome dello scrittore. Le opere fino a ora presentate in traduzione italiana ci convogliano un’immagine legata alla classicità del Giappone rivisitata in un contesto moderno o la passione dell’autore per la cultura e la bellezza occidentali. Se rileggiamo uno dei primi racconti di Tanizaki, Himitsu (Il segreto, 1911), o Chijin no ai (L’amore di uno sciocco, 1924) o Yume no ukihashi (Il ponte dei sogni, 1959) non può però sfuggirci che la passione per il mistero e per le trame ricche di suspense sono una costante della sua narrativa. Il fascino del segreto spesso lascia spazio a eventi criminosi: nel finale di Himitsu il protagonista arriva ad affermare “Il mio cuore aveva a poco a poco cessato di soddisfarsi all’allettante ma debole sensazione che dà il ‘mistero’ e tendeva a piaceri di un colore ancora più intenso, quello del sangue”. Tanizaki associa temi di perversioni sessuali o di stati nevrotici e psicopatici con storie di crimini, tanto da essere definito all’inizio della sua carriera uno scrittore appartenente all’akumashugi (diabolismo). Questo termine ritorna con insistenza in Nero su bianco, romanzo che contiene al proprio interno un racconto fittizio intitolato Fino a uccidere un uomo. Il lettore è subito introdotto nello stato mentale del narratore protagonista che si presenta come uno scrittore “diabolico”: “Mizuno non era in grado di controllare la propria mente, il suo cervello era solo il proiettore di un cinematografo interiore. Un proiettore automatico da cui sgorgavano a volontà scene di mostri e fantasmi che lui stesso creava ed era costretto a guardare”.

Nell’automatismo dell’atto creativo, un particolare importante sfugge allo scrittore professionista Mizuno: nelle ultime pagine del romanzo, Fino a uccidere un uomo, consegnato all’editore il nome della vittima dell’omicidio viene scritto con il nome vero della persona, Kojima, a cui si era ispirato. Il romanzo si apre nell’incubo di questo terribile errore che potrebbe far sì che il delitto perfetto che lui ha immaginato con in mente una persona reale possa essere attuato e lui, inventore del delitto perfetto nel romanzo possa essere considerato il vero assassino. Così lo scrittore in cerca di una trama per il crimine perfetto “in realtà aveva piantato i semi del suo omicidio perfetto”.

Ma perché, si chiede il lettore, quello che è narrato nella finzione dovrebbe poi accadere nella realtà? Nell’apparente difficoltà a cogliere il nesso di questo stretto e inusuale rapporto arte/vita sta il sottile gioco letterario dello scrittore. Questo meglio si comprende tenendo presente il contesto dei dibattiti dell’epoca. Gli anni venti coincidono, nel mondo letterario giapponese, con la definizione del canone dello shishōsetsu (romanzo-confessione), genere dal quale lo scrittore prende esplicitamente le distanze, anche nei suoi hanzai mono (racconti del crimine), fino a utilizzare in senso parodico la narrazione in prima persona nella forma della confessione. Per questo sfrutta l’aspetto performativo della scrittura giocando sull’effetto che una data asserzione produce sul destinatario, indipendentemente dal fatto che sia falsa o vera. In Nero e bianco, il titolo richiama sia la parola omofona che significa confessione sia il significato di “nero su bianco” che rimanda a un senso di verità. Tanizaki gioca tra la realtà della scrittura e quella della vita: “Fin da quando ho messo le prime parole nero su bianco, sapevo che quel racconto mi avrebbe condotto alla rovina”. Il fatto che i lettori dell’epoca potessero associare il nome del protagonista a un personaggio reale fa parte della retorica del romanzo-confessione e della vita del ristretto circolo letterario dove ognuno conosceva i dettagli della vita privata tanto da poterli riconoscere come autentici in un romanzo-confessione. Tanizaki porta all’estremo questo gioco rendendolo paradossale, con un evidente intento ironico.

Un altro dibattito riguarda la controversia sull’importanza della trama del romanzo con Akutagawa Ryūnosuke che si era svolta l’anno prima della pubblicazione di Nero su bianco. All’accusa di costruire trame troppo complicate e fuori dalla norma, Tanizaki risponde che in letteratura ciò che può esprimere al massimo grado la bellezza strutturale sia il romanzo, proprio per la sua possibilità di costruire trame interessanti. Il fascino per i racconti del crimine nasce dalla possibilità di sperimentare, sulla scia del poliziesco occidentale, quella che Tanizaki definisce la “bellezza architettonica” del romanzo. Nero su bianco, con l’accento su una trama quasi paranoica e sulle avventure sessuali di uno scrittore nevrotico sempre in cerca d’ispirazione, è una sintesi dei temi giovanili di Tanizaki, con un piccolo e nascosto omaggio al padre del mistery giapponese. La soluzione del caso è nel nome scritto per sbaglio nel romanzo, in La strana storia dell’isola Panorama di Edogawa Ranpo – appena pubblicata in Italia – il delitto perfetto è tradito da un vecchio manoscritto dimenticato da un altro scrittore-assassino un po’ distratto. Non esiste realtà se non quella letteraria? “Ciò che non è finzione non mi interessa” è la risposta categorica che Tanizaki aveva dato ad Akutagawa e alla sua ricerca della “verità” nell’arte.

bienati@unive.it

L. Bienati insegna lingua e letteratura giapponese all’Università Ca’ Foscari di Venezia