Valentina Parisi – Una mappa per Kaliningrad

recensione di Jacopo Turini

Valentina Parisi
UNA MAPPA PER KALININGRAD
La città bifronte
pp. 256, € 15,90
Exòrma, Roma 2019

 Arrivando da Ovest si coglievano i tratti orientali, arrivando da Est si si era già in occidente. La storia di Königsberg, città prussiana che diede i natali a Kant e fu rasa al suolo dall’aviazione alleata nel 1944, riparte da quella dell’odierna Kaliningrad, dal 1946 territorio russo (exclave, per essere precisi: lo sbocco sul Baltico preteso da Stalin). Due città che condividono lo stesso spazio, unico capoluogo dei margini di due mondi diversi: una città bifronte, appunto, come attesta il sottotitolo del bel libro di Valentina Parisi, studiosa di lingue e letterature slave e traduttrice. Tramite l’assemblaggio di diverso materiale narrativo, enciclopedico e documentaristico (tra le numerose fotografie presenti emergono le parole di Sebald, di Tokarczuk, di Malaparte, e, soprattutto, di Iosif Brodskij) l’autrice va alla ricerca del punto di contatto tra le due “città di K”. Due mappe sovrapposte, e non del tutto sovrapponibili. Il libro è quindi il racconto di un viaggio ad Est, per assistere, proprio a Kaliningrad, alle celebrazioni del 9 maggio, Giornata della Vittoria sul nazismo. Il movente del viaggio, però, è inizialmente personale: il nonno dell’autrice è stato uno degli 810mila militari italiani internati nei territori tedeschi dopo l’8 settembre 1943 – i cosiddetti IMI, che il Reich non aveva intenzione di riconoscere come prigionieri di guerra. Parisi quindi è anche alla ricerca (nella prefazione Francesco M. Cataluccio parla di “pellegrinaggio”) dei resti dello Stalag 1A, enorme campo di prigionia nei pressi di Stablack, villaggio poco distante da Königsberg.

La materia privata si rifrange quindi in questo reportage ibrido e polifonico, in un tentativo di mappatura dell’oblio. Il lavoro di Valentina Parisi è una geografia della memoria che si basa su strumenti, testimonianze e oggetti che non riflettono più il mondo reale e sono parte del cumulo di macerie della Storia. Cos’è rimasto visibile? Che cosa resta di un luogo scomparso? Ripercorrendo il volo di un ipotetico bombardiere, l’autrice riflette: «la visibilità di un luogo sarà direttamente proporzionale al coefficiente della sua annientabilità». La mappa che l’autrice porta con sé a Kaliningrad, infatti, è una vecchia mappa della Königsberg scomparsa. Le macerie sono ciò che resta di questa metamorfosi, da Königsberg a Kaliningrad. I diciassette capitoli del libro ritornano più volte su questo bifrontismo, sulle numerose endiadi che la storia di questo territorio può fornire: distruggere e costruire, svuotare e riempire, perdere e trovare, centro e periferia. Nel 1946, dopo un breve periodo di convivenza con i nuovi cittadini russi, la restante popolazione tedesca viene deportata a occidente. È l’inizio di Kaliningrad, una “parodia urbana” dall’identità sovietica ostentata – eppure Berlino dista 687 km, Mosca 1256.  Prima di questo, però, nel toccante capitolo centrale, Voci, possiamo leggere raccolta di brevi testimonianze russe (tradotte dall’autrice) anteriori alla partenza forzata dei tedeschi – unico momento di condivisione dello spazio e quindi di sovrapposizione tra le due identità cittadine. Poco dopo, invece, è un’esule tedesca che l’autrice incontra a Berlino a ricordare la propria Heimat perduta.

Ad oggi, Kaliningrad è una delle pochissime città russe ad aver mantenuto un toponimo sovietico; secondo Milan Kundera, ribattezzarla vorrebbe dire riconoscere la distruzione che l’ha generata. La città russa infatti riscrive i suoi miti, reinventa un passato artificioso – e, soprattutto, vuole cancellare la memoria del dolore arrecato, in uno sconcertante equilibrio tra male e bene. Fin da subito: quando nel 1945 l’Armata Rossa entra in quello che rimane della città, scrive Parisi, i soldati trovano, tra i resti dello zoo, un ippopotamo ferito. In russo, ippopotamo si dice begemot, dall’ebraico biblico bēhēmot, che l’autrice suggerisce di tradurre come “bestia immensa, l’animale tra gli animali”. La bestia (che per i tedeschi si era chiamata Rosa e ora ha nome di Hans, cambiando quindi anche il genere) è sconosciuta ai più, ma viene curata con grande apprensione, «ai limiti dell’accanimento terapeutico», con litri e litri di vodka.

Cosa ci dice ancora La mappa di Kaliningrad? L’identità di un luogo, così come quella dei suoi abitanti, si crea e prende forma tramite ogni tipo di narrazione, sia questa una tradizione, un costrutto culturale, o un avvenimento con cui tutto questo entra in collisione. Il libro non vuole dimenticare niente, nessun legame storico o letterario, nessun ricordo; l’autrice viaggia entro lo spettro di queste identità discordanti, per conoscere e far conoscere il più possibile nell’attesa dell’arrivo.