Laurens van der Post – Il cuore del cacciatore

Quello che non ho è quel che non mi manca

di Francesco Remotti

Laurens van der Post
IL CUORE DEL CACCIATORE
ed. orig. 1961, trad. dall’inglese di Francesco Francis, disegni di Maurice Wilson,
pp. 287, 67 ill. b/n, € 24,
Adelphi, Milano 2019

Questo libro esce in italiano cinquantotto anni dopo l’edizione originale (The Heart of the Hunter, 1961). L’autore, Laurens van der Post (1906-1996), discendente di un’antica famiglia boera, era uno scrittore ed esploratore sud-africano. La sua fu una vita intensa e movimentata. Alla vigilia della seconda guerra mondiale si arruola nell’esercito britannico e così combatte in Abissinia e nelle Indie Orientali Olandesi, per poi essere tenuto prigioniero dai Giapponesi nell’isola di Giava per ben tre anni. Negli anni cinquanta ritorna in Africa e si dedica all’esplorazione prima del Malawi e poi del deserto del Kalahari, dove incontra alcuni sparuti gruppi di Khoi-San. Nel libro egli ci parla dei modi con cui entrò in contatto con questi gruppi, da lui chiamati Bushmen, Boscimani, secondo il vecchio e ormai superato appellativo coloniale. In diversi punti del suo libro l’autore dichiara inoltre di non avere le competenze di uno studioso specialista di quelle popolazioni, e tuttavia rivendica il bisogno e il diritto di comunicare ad altri la sua straordinaria esperienza. Non sappiamo esattamente perché l’editore italiano abbia voluto proporre questo libro in apparenza così inattuale. Ma non si può non rilevare che l’edizione italiana svela una sua profonda attualità, non appena venga collocata nel momento in cui la parte più consapevole della cultura occidentale si pone il problema degli sconvolgimenti prodotti negli ambienti naturali e dunque della sua stessa sopravvivenza. Nel 1961 questo tema non era all’ordine del giorno: lo è invece, drammaticamente, nel 2019. Il racconto, che van der Post ci trasmette, della sua esperienza negli anni cinquanta con i Boscimani del Kalahari diventa un documento prezioso per incrementare la consapevolezza della cultura occidentale nel momento in cui è più direttamente chiamata in causa.

Vorrei cominciare con un tema apparentemente estraneo: il senso dell’umorismo, che van der Post coglie tanto tra i Boscimani quanto tra i vicini Bantu. L’autore fa notare l’inclinazione dei Bantu a ridere anche quando un incidente imbarazzante capita a uno di loro (non solo all’europeo di turno): “più tremendo è l’incidente, più forte ridono” e gli europei non si rendono conto che quel ridere “è un’espressione di solidarietà, ispirata dalla convinzione che se si ride della disgrazia di una persona, la si aiuta a prendere sul ridere e a superare prima il brutto momento”. Van der Post insiste sulla differenza di atteggiamento: egli sa come il contatto con gli europei abbia spento la “risata aborigena in tutta l’Africa” e attribuisce questo “effetto paralizzante” all’“immenso potere sul mondo fisico” esercitato dagli europei, condannando così le popolazioni africane a “credere che essi siano una sorta di dèi”.

In particolare per i Boscimani il mondo naturale non è “materia inanimata” da sfruttare, su cui esercitare un potere: animali, piante, stelle sono trattate come persone. Impressionanti sono le pagine in cui sono descritti gli atteggiamenti dialoganti dei Boscimani con gli animali che incontrano nel loro ambiente, e sotto questo profilo un tema anch’esso ricorrente, quello della “grazia” nel loro comportamento e nella loro visione del mondo, è altrettanto rivelatore. “Io li guardavo rapito dalla grazia dei loro movimenti”, come quando una donna eleva il suo bambino in alto, cantando con il viso rivolto al cielo e chiedendo alle stelle di dare al suo piccolo un cuore di cacciatore, o come quando ammirano la grazia, la bellezza, l’innocenza di una piccola antilope. Questa grazia, che si unisce a una profonda conoscenza dei vari aspetti dell’ambiente in cui sono costretti a vivere, trova la sua sintesi nel modo di rapportarsi al deserto: essi hanno una grande capacità di “far fronte ai pericoli del deserto”, proprio perché lo conoscono, lo rispettano, persino lo amano. Per i Boscimani – sostiene van der Post – il deserto ha sempre dato prova di essere “il loro migliore amico, ben più gentile di quanto non fosse stata la civiltà” dei bianchi.

A questo proposito, è di grande interesse la riflessione sull’importanza del grande e del piccolo. Partiamo dai Boscimani. Il libro illustra assai bene la limitatezza, potremmo anche dire la pochezza della loro cultura materiale. Essi portano letteralmente nelle loro mani tutto ciò che possiedono. Ma – aggiunge il nostro autore – “qualsiasi cosa mancasse nella loro vita, non ho mai pensato che fosse il significato”, la ricerca paziente e costante di un significato nei vari aspetti del mondo e della loro esistenza. Il rischio di una visione romantica ed esotizzante è indubbio in queste pagine. A compensare questo rischio, valgono però le considerazioni di van der Post sul nostro tipo di cultura. Avendo “perduto il senso dell’importanza di ciò che è piccolo nella vita”, noi siamo “ossessionati dalla dimensione e dal numero”, dalla produzione cioè di una cultura smisurata, esemplificata dalle “città tutte identiche che stiamo costruendo dappertutto nel mondo”, come una sorta di cancro che si espande e che uccide l’intero corpo.

Non mancano nelle pagine di van der Post accenti e inclinazioni misticheggianti, e tuttavia essi non tolgono valore a quanto egli afferma sulla contro-finalità della cultura che abbiamo prodotto: una cultura che per le sue dimensioni diviene qualcosa di incontrollabile, una specie di prigione da cui ben difficilmente siamo in grado di liberarci. “In effetti di cose ne sappiamo tante che rischiamo di diventare prigionieri delle nostre conoscenze”. È un tema questo su cui sarebbe bene riflettere specialmente di questi tempi, costretti a chiederci quale tipo di cultura ci abbia portati a ciò che ora chiamiamo Antropocene. Gli antropologi in particolare potrebbero raccogliere questi spunti, che van der Post ci offre ponendo a confronto la nostra ossessione per il grande e lo smisurato, il nostro volerci comportare come dèi nei confronti della natura e delle altre società, e invece la cultura delle comunità che hanno saputo adattarsi al deserto del Kalahari. È vero che van der Post percorre il deserto e va in soccorso dei suoi amici Boscimani con i mezzi e le risorse che la civiltà occidentale gli offre. Ma ciò non rende meno significativa la preoccupazione per il carattere e il destino di questa stessa civiltà. Per le sue dimensioni, oltre che per la prospettiva da cui è nata (il dominio sulla natura da parte di uomini che immaginano di essere dèi), essa produce una preoccupante “cecità” dell’uomo moderno: “ciechi come siamo” a stento ci rendiamo conto dei rischi a cui continuiamo a sottoporre non solo il nostro mondo, ma anche il mondo degli altri, delle altre società umane, così come delle altre specie naturali. È rilevante che, grazie al confronto con sparuti gruppi di Boscimani, van der Post fin dal 1961 sia pervenuto a suggerire un tema che ci riguarda da vicino: l’accecamento prodotto dalla nostra stessa cultura.

francesco.remotti@fastwebnet.it

F. Remotti è professore emerito di antropologia all’Università di Torino