I personaggi, la letteratura e le vite di Edgardo Franzosini

di Andrea Cirolla

Giacomo Inaudi amava più di tutto contare.
“Contava le nuvole in cielo, i rami e le foglie degli alberi, i sassi sulla strada. Contava le finestre delle case, le tegole sui tetti, le parole che durante la messa pronunciava il parroco”. Il suo talento era tanto prodigioso che diventò un’attrazione pubblica, prima nelle sagre di paese e nelle fiere di bestiame nei dintorni di Borgata Norat, là dove “Jacques” nacque nel 1867, poi nei teatri di Parigi, Londra e ovunque lo portasse il suo impresario. Sapeva sviluppare e risolvere “con sconcertante facilità almeno quattrocento operazioni a 18 cifre, e ricapitolarne, poco più tardi, tutti quanti i risultati”.
La sua capacità nel calcolo era però inversamente proporzionale alla sua memoria, quella dei piccoli eventi del quotidiano: ricordando le lunghe lettere che le scriveva da fidanzato, la moglie spiegò una volta quanto ripetessero, in fondo, “con modeste variazioni, un unico concetto, dal momento che Jacques non aveva modo di ricordare le parole che aveva, con fatica, scritto qualche riga più su”.
Questa storia appartiene a Edgardo Franzosini. È tratta dal primo di una serie di articoli usciti su la Repubblica nel luglio del 2017 (“Storia di Giacomo l’uomo computer che calcolava troppo”, 1 luglio).

Per trentacinque anni Franzosini è stato impiegato in una banca dietro il Duomo, e segretamente scrittore. L’affaccio letterario cade nel 1984, sotto lo pseudonimo di Edgar Lander, con cui firmò una protoedizione di Bela Lugosi. Biografia di una metamorfosi (Tranchida), tra i suoi libri di maggiore successo, oggi conosciuto da tutti nella versione Adelphi del 1998 (un’edizione rivista, ma che nel colophon non segnala il precedente). Nel 1985, sempre firmata Edgar Lander, sempre per Tranchida editore, uscì una traduzione dei Discepoli di Sais di Novalis. Non è l’unica, ne seguirono almeno altre due – Georges Simenon, La vedova Couderc (Adelphi, 1993) e Joseph Périgot, pseudonimo di Pierre Legrand, Il rumore del fiume (Mondadori, 1994) – entrambe firmate a quel punto col vero nome, come l’altro grosso lavoro extra-autoriale, recentissimo: la curatela per Adelphi degli scritti di Arthur Cravan, personaggio indubbiamente franzosiniano, tradotti da Maurizia Balmelli e Nicola Muschitiello e intitolati al Grande trampoliere smarrito (Adelphi 2018).

Il voto di segretezza non fu sciolto fino al 1989, anno in cui uscì per Sugarco il primo libro ufficiale, Il mangiatore di carta, riproposto nel 2017 da Sellerio, che del resto per primo l’avrebbe pubblicato, non fosse stato per quella lettera di Elvira Sellerio mai recapitata al destinatario: dispetto di un portinaio… La storia di Inaudi “appartiene” a Franzosini non perché l’abbia inventata, e forse nemmeno perché l’ha sottratta all’oblio cui il tempo e la mancanza di sufficienti testimonianze storiche l’avevano condannata. Ma poi, sufficienti a che cosa? A un ritratto storico rigoroso, evidentemente: ciò cui Franzosini tende e, quasi sempre, si attiene. In questo “quasi” sta il senso profondo di quella appartenenza, e la chiave della sua arte, che inizia dove finisce l’impalcatura storiografica di ogni suo libro, la cornice di ogni suo romanzo. Franzosini va in cerca di tracce, storie bizzarre finite accidentalmente dentro altre storie, parabole ignorate, non ancora raccolte e raccontate. Le ricompone come pezzi di un mosaico scomposto dal tempo, quindi lavora sulle lacune, colmandole con un particolare tipo di fantasia, più vicina all’intuizione e alla predizione (ma sarebbe meglio dire “postdizione”) che all’invenzione pura. Il suo archivio è una collezione di materiali e ritagli raccolti intorno alle esistenze di uomini sconosciuti, in qualche modo legati a fatti o personaggi salienti della Storia. Da qui, le biografie immaginarie che lo hanno reso un autore di culto, molto amato anche dagli scrittori della nuova generazione.

Nei suoi libri e nei racconti su riviste e quotidiani hanno (ri)preso vita caratteri di ogni epoca e tipo. Johann Ernst Biren, uomo bellissimo, scrivano alla corte di re Carlo XII di Svezia e divoratore compulsivo delle carte che copiava per il suo ministro, barone di Goertz. Bela Lugosi, Dracula per il teatro, per il cinema e infine per la vita intera. Raymond Isidore, architetto naïf, detto il “Picasso di Chartes” o “Picassiette”, da “Picasso” e assiette, che in francese significa “stoviglia”, perché di frammenti di stoviglie raccolti nelle discariche (di cui era custode) ricoprì la sua casa, fino a renderla un’opera d’arte mondiale, una cattedrale senza precedenti. Giuseppe Ripamonti, ghostwriter di Federico Borromeo, che lo nascose al mondo imprigionandolo per quattro lunghi anni, affinché non fosse svelato il segreto e insieme l’ignominia propria di coloro che “aspirano a guadagnarsi fama immortale con lavori faticati da mani che non sono le loro, ed ai quali appongono il proprio nome”, ovvero il nome del cardinale che dà titolo al libro. Alceste Paleari, asceta, cultore della Noce di cocco sul Monte Verità. Rembrandt Bugatti, scultore ossessionato dagli animali, fratello del più noto fondatore della casa automobilistica; infine Arthur Rimbaud, che non ha bisogno di presentazioni, ma del cui soggiorno milanese nulla o quasi si sapeva. E ancora: Henri Oedenkoven, giovane inquieto che iniziò curando la propria sifilide “con regole vegetariane di alimentazione, con la ginnastica all’aria aperta e con il nudismo”, e finì col fondare ad Ascona la “colonia vegetabilista del Monte Verità” di cui sopra, “il paese di tutte le Utopie del Novecento, il recesso di tutte le originalità, di tutte le fantasie religiose del secolo, il luogo dove sperimentare ogni possibile modo di vita alternativo” (“Il re anarchico dell’utopia nel cuore d’Europa”, in la Repubblica, 31 luglio 2017). Amo Afer, ivoriano del Settecento, portato in Europa in forma di dono della Società Olandese delle Indie Occidentali al serenissimo duca e principe di Braunschweig Wolfenbüttel Anton Ulrich, e primo africano a frequentare un’università europea (quella di Halle, dove diventò professore ordinario), che un giorno decise di abbandonare l’Europa per tornare in Costa d’Avorio, dove finì per vivere in un allucinato stato di torpore, dentro a un fortino abbandonato (“Il buon selvaggio che disse di no al sogno europeo”, in la Repubblica, 25 luglio 2017). I cugini Alemany, con la loro ossessione per le misurazioni del tempo: l’uno si dedicò alla correzione della sfasatura fra calendario gregoriano e calendario solare, l’altro a inventare un gigantesco Orologio enciclopedico (“Misurare il tempo la dolce ossessione dei cugini Alemany”, in la Repubblica, 19 luglio 2017). Infine, ma ce ne sarebbero altri, Le Gentil de la Galaisière, astronomo sfortunato, viaggiatore suo malgrado per inseguire “un fenomeno ‘raro e importante tra quanti si possono vedere in cielo’, vale a dire il transito di Venere sopra il Sole’, che lo portò fino a Manila, nelle Filippine (“I viaggi di Le Gentil astronomo senza fortuna”, in la Repubblica, 10 luglio 2017).

Ogni storia di Franzosini rivela un interesse genuino per la persona. Ciò che emerge nel complesso è una sorta di esistenzialismo elaborato con gli strumenti della narrativa, primi tra questi il piacere affabulatorio e una prosa raffinata, chiara, polita, rigorosa come il metodo storiografico su cui tutto il suo lavoro si regge, e allo stesso tempo ricca di musicalità. Che siano reali o inventati (l’unico caso noto, in questo senso, è Alceste Paleari), ignoti o noti (Rimbaud, altra isolata eccezione), tutti i personaggi di Franzosini sono accomunati da piccole personali stranezze, dal loro essere stralunati, imperfetti perché scheggiati da follie più o meno innocue, e spesso nascoste al pubblico. Il registro delle narrazioni oscilla tra il passo lento della ricostruzione storico-filologica (in Sotto il nome del cardinale, Adelphi, 2013) e la scioltezza finzionale d’ambientazione storica (Sul Monte Verità, Il Saggiatore, 2014), tra la solennità delle tante pagine perfette dedicate a Bugatti in Questa vita tuttavia mi pesa molto (Adelphi, 2015), con la Grande Guerra che incombe sul suo sfondo, e l’umorismo gentile di Bela Lugosi. Franzosini lavora sui dettagli, costruisce i suoi libri tessendo fatti insoliti, curiosità, aneddoti che divertono senza che il riso allontani il loro mistero. Nella progressione del racconto, il contesto si arricchisce di particolari, detriti di molte altre storie, secondo il modello architettonico di Raymond Isidore e la sua cattedrale (Adelphi, 1995). Così progredendo, l’ambientazione si infittisce, mentre il protagonista si definisce invece per sottrazione: lo si riconosce d’un tratto nel resto, nella sagoma scura al centro di quel mosaico incompleto di cui si diceva, ricomposto pezzo dopo pezzo a partire dai margini fino al centro, dove il centro non si raggiunge mai, però, né mai sarà raggiungibile se non nei luoghi della fantasia, là dove lo scrittore passa il testimone al lettore. Se la scrittura ne ricompone il “corpo”, infatti, solo la lettura può ridare vita a questi personaggi dimenticati dalla Storia e, insieme, dalla Storia trattenuti, impigliati a macerie letterarie, rapidi cenni, segnalazioni lacunose, testimonianze involontarie.

Anche trattando un personaggio arcinoto e inflazionato come Rimbaud (in Rimbaud e la vedova, Skira, 2018), Franzosini sceglie un episodio sostanzialmente privo di documentazione: la manciata di giorni che il poeta trascorse a Milano, ospite (forse) di una misteriosa signora. Un fatto registrato da fonti che, per quanto insufficienti, sono fatte letteralmente dialogare, quasi potessero trasformarsi a loro volta nei personaggi di un romanzo. Per quale motivo una scelta del genere? Una spiegazione plausibile è che ci sia, prima nella sua attitudine di storiografo, poi nel suo immaginare narrando, un gusto per l’ostacolo: figuratamente parlando, per la siepe che esclude lo sguardo ma apre alla fantasia, al gioco immaginativo del pensiero, nella speranza di smarrirsi dentro la storia e il suo racconto, esercitando una profonda fede per la realtà del magico (non a caso, Borges è tra i suoi scrittori preferiti). Letta l’ultima pagina, richiudendo un suo libro, la certezza di aver scoperto la storia inedita di un personaggio realmente esistito sfuma e declina ogni volta verso un dubbio allucinante: e se fosse stato tutto soltanto un “delirio della fantasia”? Domanda legittima, ma oziosa. Fantasia o realtà, delirio o visione giudiziosa: cosa importa? Quel che importa, quel che rimane, è l’esempio della continua Commedia umana cui partecipiamo, raccontata da Franzosini attraverso una scrittura grandiosa nella sua sobrietà; e nel suo mimetismo, capace di trasformare un racconto storico nel sogno di un’opera di pura finzione. Tra Storia e Finzione la verità non viene comunque mai meno, perché la prima lavora per ristabilirla – sottraendola agli strati crono- e geologici – e la seconda per dare ai fatti ordine e seduzione, ingrediente irrinunciabile quando si invita un lettore al mistero di ogni esistenza.

Andrea Cirolla è critico letterario

andreacirolla@gmail.com

 

Leggi anche l’intervista di Federica Gianni a Edgardo Franzosini, dal numero di marzo 2019.